Regia di Ridley Scott vedi scheda film
Creduto morto dai compagni di spedizione e abbandonato su Marte, l’astronauta Mark Watney - nato dalla penna di Andy Weir e sceneggiato da Drew Goddard - è a tutti gli effetti un pioniere. A metà tra l’uomo di frontiera del western classico - genere dal quale Sopravvissuto mutua il proprio incedere drammaturgico - e l’esploratore dei romanzi di avventura e iniziazione, Watney è il prototipo della tanto evocata civiltà post-tutto. È il primate di una neo-umanità al tempo dell’ipertecnologizzazione. È il pirata della marziana conquista, nonché l’inventore di un sistema di sopravvivenza che, dalla strategia botanica, arriva al nuovo modo di comunicare in uno spazio che «non collabora». È il colonizzatore del (post)mondo, perché «se qualcuno coltiva qualcosa in un posto, vuol dire che lo ha colonizzato». Con una sceneggiatura blindata, Scott è ancora tra i migliori metteur en scène hollywoodiani. Se con l’espediente del videodiario di Watney assolve il compito narrativo (leggi: ci tiene al corrente di quanto Mark sta facendo), con il montaggio parallelo a tre piste (Marte, spazio e Terra) svolge un geometrico dialogo visivo-simbolico-narrativo, accettando il compromesso blockbuster solo quando necessario. E in un florilegio di dispositivi di ripresa - tra camere a circuito chiuso, GoPro, suitcam, webcam private, monitor NASA e (amate) oggettive - ci dimostra quanto, in questa civiltà post-tutto, l’immagine sia (ancora) indispensabile.
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