Regia di Ridley Scott vedi scheda film
There's a starman waiting in the sky ...
Botanico, colonizzatore di Marte, naufrago, pirata dello spazio, primo fra i primi a fare qualsiasi passo, l'abbandonato per errore (in quanto ritenuto morto) Matt Damon è un sopravvissuto. Ad una mastodontica tempesta di sabbia, polvere metallica e residui d'ogni specie che ha causato l'aborto della missione; ma anche alla peggiore delle sorti (il nutrimento, innanzitutto): condizione risolta brillantemente grazie alla (bio)materia fecale, notariamente - nonché deandrianamente - ricca di "vita". E via ad una florida piantagione di patate nel bel mezzo dell'infinito nulla marziano, tra scorci d'indicibile bellezza e squarci di atavica cosmica solitudine. L'imperativo è risolvere un problema alla volta, onde evitare quella simpatica sensazione di ineluttabile morte imminente che pervade ogni momento nella relativ(issim)a sicurezza dell'HAB (rifugio, casa, madre fornitrice di ossigenatore, esistenza, dominio sulle cose tutte) mentre un videodiario di bordo funge da confessionale/psicoterapeuta ed oggetti e feticci degli altri membri dell'equipaggio (la discutibile playlist disco dance del comandante Jessica Chastain, ad esempio) - ormai in rotta verso il pianeta azzurro - restituiscono parvenze di "normalità".
Happy Days, dopotutto: inutile perdersi d'animo arrendendosi all'inevitabile. Meglio darsi da fare, scavare, cercare, defecare, studiare, (rac)contare, analizzare, coltivare. Pensare. Così persino un rottame degli anni novanta come il glorioso Pathfinder serve a ristabilire un (rudimentale) contatto con l'aldilà terrestre e inquadrarne la natura cazzona: la posa alla Fonzie è un messaggio. Ai cervelloni della Nasa, ai compagni, al mondo intero, a sé stesso. I problemi sono reali, non filosofici; e reali(stiche) le paure, le (re)azioni (fisiche, emotive, cerebrali), le difficoltà quotidiane, le sventure, le discese nel maelstrom dell'ignoto (deserto rosso). Ma anche le dosi massicce, salvifiche, d'(auto)ironia: che si fottano le distese aliene, i politicanti di Houston, le possibilità di (soprav)vivere, i quattro anni dalla prossima missione nel cratere Schiaparelli distante un paio di migliaia di miglia ... E quando il buio sembra spegnere ogni (residuo di) speranza (avendo un'esplosione soffocato il giardino di patate e congelato le sole forme di vita batteriche), un abbozzo di idea di recupero del marziano balena nelle menti giù a Terra fino a raggiungere l'equipaggio ancora sulla strada del ritorno. Andarselo a riprendere: ecco il piano, la missione impossibile, l'impresa rocambolesca a cui l'intero globo guarda tramite i soliti media.
Invero, la parte meno interessante e più convenzionale dell'opera di Ridley Scott: abbondano e dominano la (banale) retorica e l'epica del salvataggio dell'eroe (per caso) condita di ogni contrattempo possibile risolto sempre in modo brillante anche a dispetto di ovvie probabili conseguenze (salvarne uno vs. perderne sei), il sentiment(alism)o collettivo che non ammette altri esiti, l'esaltazione dello spettacolo, le orbite classiche che i cervelloni e funzionari da un lato e i temerari sul campo dall'altro compiono.
Per quanto il tutto risulti ottimamente messo in scena - illuminato, montato, gestito -, dinamiche, tempi, sguardi, processi di elaborazione/calcolo del disegno narrativo-empatico, non solo sono all'insegna del già visto (molte, molte volte) e da manuale dei canoni, ma altresì invertono la rotta insolita in precedenza intrapresa.
Quasi un lavoro (pregevole) di destrutturazione degli space movie, quello dello sceneggiatore Drew Goddard (non a caso regista e coautore di The Cabin in the Woods); certamente un'esplorazione dell'animo umano in una condizione estrema, che parte da un assunto noto per ibridarlo - "sporcarlo" - con le tinte, le sfumature, i ritmi della commedia. Rivisitazione pop del genere, condita di gustosi cortocircuiti citazionistici (il progetto "Elrond", così battezzato dal Donald Glover di Community, alla presenza del direttore delle missioni Sean Bean), di riflessioni sul potere e sull'immagine (la figura centrale del direttore della Nasa Jeff Daniels: sue le scelte più difficili, tra cui quella di nascondere inizialmente ai compagni di Damon il fatto che non fosse morto), di brani disco-pop dei seventies a dettare toni, pensieri, stati d'animo (Hot Stuff di Donna Summer: il ballo spontaneo spazza via sfiga e cattivi propositi).
Una scrittura intelligente che, come detto, scivola nel più tradizionale dei territori battuti (compresa la "lezione" finale, col Nostro ad insegnare ad aspiranti astronauti); che inficia quindi, in parte, l'opera nel suo complesso (insomma, sarebbe stato preferibile concentrarsi sul protagonista, scavare nella sua mente in condizioni sempre più avverse e prolungate nel tempo). Ma certo affidata alle mani sapienti di Ridley Scott, che lavora di fino e sa farsi concreto quando occorre senza inutili gravitanti svolazzi di mdp ed ego registico, sa come girare la sequenza della tempesta di sabbia e quelle del piano di recupero (tensione e ritmi alle stelle) e come gestire i cambi di location e campi d'azione. Sotto la sua direzione, inappuntabili gli attori: dal solidissimo (come sempre) Matt Damon all'efficae cast di supporto su cui spiccano l'ansioso Chiwetel Ejiofor, l'ambiguo Jeff Daniels, la magnifica Jessica Chastain, credibile e tostissima comandante del team.
Non sarà un film imprescindibile né iconico, The Martian, ma è senz'altro visione godibile e intrigante.
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