Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Dice Quentin Tarantino che un regista di western deve averne girati almeno tre, e quindi, c'è da aspettarsene almeno un altro nei prossimi due lavori che dovrebbero concludere l'esperienza da director dell'ex ragazzo del videonoleggio. Computo a parte, il nuovo lavoro del regista di "Kill Bill" è una specie di thriller mascherato da western, ambientato sulla neve, in una diligenza, nella lunga introduzione, e per il resto in un rifugio in cui si ritrovano gli otto personaggi del titolo: uno peggiore dell'altro, gente da cui diffidare, se non si vuol prendere una pallottola a tradimento. In gioco c'è una prigioniera che deve essere accompagnata ad un processo che probabilmente la spedirà sulla forca, e tutto ruota attorno a lei. Tra ex-sudisti, ex-schiavi, bounty killers, mandriani, aspiranti sceriffi e messicani, si snoderà una trama ricca di risvolti ambigui, e rivelazioni ribaltanti. Se la prima parte, appunto, è atta ad introdurre il racconto ed i personaggi in scena, nella seconda si scatena la violenza, e parecchia, che è una delle componenti maggiori del cinema tarantiniano: sempre sarcastica, quasi posticcia nella propria iperbole, abbonda come i dialoghi, dato che lo spazio è condiviso dai caratteri per quasi tutto il tempo, e le uccisioni non turbano più di tanto i presenti. "The hateful eight" è un'opera destinata a dividere anche i fans più accesi del regista, tra chi lo ha amato appassionatamente, e chi vi vede più difetti che pregi. Racconto sulla mistificazione o sulla natura irrimediabilmente violenta degli USA, che sia autorizzata dallo Stato, o meno, ma radicata nel DNA nordamericano, il film numero 8 di Tarantino, in alcuni passaggi, non sfugge al sospetto di un'autocelebrazione di sè e del proprio modo di fare cinema: l'occhio e la memoria vanno a "Le iene", naturalmente, gioco al massacro in spazio chiuso, tra confessioni e tradimenti, crudeltà ed eliminazioni. Certo, tenere gli spettatori avvinti per quasi tre ore con lunghi scambi di battute, cambiamenti di prospettiva e scatti di violenza cieca, soprattutto contro l'unico personaggio femminile (reso magnificamente da Jennifer Jason Leigh, che dà uno sguardo da bambina ferita ad un personaggio capace di una malignità perversa) era impresa titanica, non del tutto garantita nella riuscita. Ma c'è da dare atto a questo director anarcoide, fatto di contraddizioni come ogni americano che si rispetti, di aver creato, forse unico negli ultimi trent'anni, un modo di fare cinema così personale, ed allo stesso tempo, citazionista e inzuppato di altre visioni, attesissimo da pubblico e critica, che non può non lasciare il segno.
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