Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
L’utilizzo che fa Tarantino del western non è né parodistico né revisionista. È più una questione formale e linguistica in cui i modelli narrativi, l’iconografia e le tematiche base del genere vengono riadattate a scopi sia scopici – la messa in scena teatrale, i campi, le inquadrature, la suddivisione in capitoli della storia, la disarticolazione del materiale narrativo – sia argomentativi. Dopotutto, in The Hateful Eight nonostante si parli di Guerra Civile, schiavitù, saccheggi, linciaggi, giustizia sommaria, campi di battaglia e presidenti illuminati, si parla in realtà dell’America di oggi, del ritorno degli estremismi, della pancia e dell’uccello che comandano ogni relazione umana.
Orson Wells disse al nostro Giulio Questi che con il western potevi dire tutto quello che volevi dire. Il nostro spaghetti-western, tanto caro a Tarantino, aveva innata nella sua poetica proprio questa intenzione autoriale. Così infatti nacquero rifacimenti western di Amleto, Romeo e Giulietta, delle tragedie greche e perfino dell’assassinio di Kennedy. Perché? Perché con il western puoi dire tutto quello che vuoi dire. E Tarantino ci parla dell’arbitrarietà, tipica della frontiera, con cui ancora oggi tengono banco molti americani credendosi in diritto di piegare a loro piacere chiunque o qualunque cosa, dalla natura alla giustizia, dalle razze alle classi sociali, strumentalizzando dio, patria e ricchezza per imbonire la popolazione.
Della famosa risemantizzazione del western classico fatta da Sergio Leone e altri cineasti italiani non c’è traccia in Tarantino. Il regista del frullato postmoderno non porta in scena uno straniero antieroico o minoranze etniche come protagoniste di una storia di vendetta e riscatto; piuttosto attinge all’immaginario del genere, estrae figure tipiche del western come i cacciatori di taglie, i cowboy, gli sceriffi, i sudisti e i messicani e li ridisegna iperbolicamente secondo il suo canone ormai riconoscibile. Così, il linguaggio basso-volgare, la cultura pop, l’estetica splatter e i codici postmoderni sono strumenti retorici che incidono sul genere, piuttosto che essere espedienti narrativi. In questo, giocoforza il formalismo di cui Tarantino è maestro, emerge tutta la consapevolezza della forza del genere e del linguaggio autoriale tipico del regista.
Le differenze con Django scatenato (2012) sono molte. In questo scarto, Gli odiosi otto riescono ad avvicinarsi a quello che per chi scrive è il capolavoro tarantiniano, Death Proof (2007), più che al southern western che sicuramente è tra le migliori prove di Tarantino per passione cinefila e politica, iconografia e coraggio estetico. Messa da parte questa euforia estetica, The Hateful Eight sgombra il campo e mette in scena la drammatizzazione della grande frattura americana. La guerra di secessione, di cui l’omicidio Kennedy è il secondo atto, mentre l’11 settembre il terzo, è l’avvio della strutturazione sociale americana anni dopo l’indipendenza e la carta costituzionale. Della serie “adesso vediamo chi siamo davvero”.
Con un cast azzeccatissimo, su cui troneggiano Russell e Jackson – ma Madsen ruba la scena a tutti quando è il suo momento – una colonna sonora incredibile e forse pure superiore alle immagini che commenta, e grazie anche a un’esplosione di ironica violenza splatter che continua la riflessione sullo spettacolo clownistico della violenza nell’epoca del frammento e del libero accesso all’eccesso, il film gioca tutte le carte migliori possibili e regala allo spettatore, se non un capolavoro, un ottimo pezzo di cinema. Di cinema western.
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