Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Le premesse non erano delle migliori. Tarantino veniva dal passo falso di “Django Unchained” e si profilava all’orizzonte una versione pseudo-western delle “Iene”, un riciclo di idee vecchie di 25 anni, senza aggiungere nulla a quanto già si sapeva del cineasta di Knoxville. Ebbene, “The Hateful Eight” è proprio questo, più o meno. La buona notizia è che questa cosa non impedisce al film di essere sempre intenso ed avvincente per ben tre ore di durata, nonostante se ne resti chiuso fra quattro mura per l’80% del running time. E soprattutto, fa capire che Tarantino, dopo due decenni di continua evoluzione, è perfettamente in grado di fare quello che solo i grandi classici sapevano fare: ripetere se stessi senza annoiare.
“The Hateful Eight” è la solita ricetta tarantiniana, ferma agli anni 90, a base di crudeltà, ironia, dialoghi interminabili ed improvvise eruzioni pulp? Certamente. Ma allora “Un dollaro d’onore” dell’immenso Howard Hawks (il più classico dei classici) che cos’era? Non era forse un tardo (era già il 1959) esempio di classicismo western nelle forme e nei contenuti? Non era forse un film rimasto fermo all’etica e all’estetica (poesia a parte) di “Ombre Rosse” di Ford (antecedente di 20 anni)? Senz’altro. Eppure ciò non ha impedito a quel film di diventare un esemplare di cinema purissimo, un modello di intrattenimento intelligente, un compendio di cultura western, una lezione di matematica dei tempi filmici e di chimica delle componenti strutturali.
L’ottavo film di Tarantino va inquadrato nella stessa prospettiva di “Un dollaro d’onore”. A scanso di equivoci: non si sta paragonando la qualità intrinseca dei suoi film, ma solo la posizione che occupano nelle rispettive epoche hollywoodiane. Vedere accostato il nome sacro di Hawks a quello profano di Tarantino può sembrare una bestemmia. Ma riflettiamo. Il cinema classicissimo di Hawks è morto e sepolto da un pezzo. C’è stata la bufera modernista della New Hollywood, dopodiché la dottrina post-moderna è finalmente approdata al cinema americano. E via di contaminazioni, citazioni, ironia, svuotamento, purezza etica ed estetica perdute per sempre. Tarantino ne è stata per 20 anni l’espressione più popolare e paradigmatica. E anche la più divertente. La più…classica.
Sì perché Tarantino deve il suo successo ad un fattore spesso sottaciuto, che non ha niente a che vedere con la violenza, le citazioni o altri suoi marchi di fabbrica: il fatto di aver scomposto il cinema che fu, non per lasciarne i brandelli al vento, ma per rifondare di fatto una nuova idea di classicità cinematografica, un nuovo modello di racconto per immagini, una nuova architettura dei luoghi e dei tempi, una nuovo sistema di personaggi e di psicologie, una nuova “morale”. Non un post-modernismo come gioco sterile e fine a se stesso, ma come una condizione necessaria, un momento “distruttivo” inevitabile per “costruire” un nuovo paradigma, così raffinato e rigoroso da potersi paradossalmente definire un “classico”.
“The Hateful Eight” è il film che chiarisce questo aspetto in modo definitivo ed inequivocabile: non sarà geniale come “Pulp Fiction”, né caleidoscopico come “Kill Bill”, né teorico come “Inglorious Basterds”. Ma è pura prassi tarantiniana, al top della grinta e della brillantezza. Il film degli anni ‘10 da consegnare ai posteri come “classico dell’era post-moderna”. Tarantino va col pilota automatico, ma solo perché può permetterselo, grazie a quella cosa che manca al 90% delle produzioni hollywoodiane contemporanee: la sceneggiatura di ferro (ovviamente sempre firmata QT).
Tarantino è uno story-teller come nessun altro oggi, a parte forse James Gray (che però è tutto tranne che post-moderno). Tarantino scrive dialoghi come nessuno sa più fare; disegna i personaggi e le loro motivazioni con una precisione certosina; delinea conflitti e linee di forza con rara geometria; scandisce il flusso filmico con inquadrature calibrate e muove la mdp con economia hawksiana (eh già). E’ tale la padronanza della materia che tutti gli elementi “impuri” (post-moderni), come gli improvvisi flashback, l’estemporanea voce off, i ralenti (anche delle voci), l’auto-consapevolezza dei dialoghi e i momenti splatter vengono perfettamente assorbiti in una narrazione a prova di bomba.
Dal punto di vista contenutistico e morale, la cosa che non si finirà mai di apprezzare di QT è la sua encomiabile, perché onesta e sfrontata, “scorrettezza politica”. Tarantino non fa sconti a nessuno, semplicemente perché non c’è nessuno che si salva. Nell’universo di QT sono tutti “bastardi senza gloria”, tutti assassini, tutta feccia. L’unica cosa da fare è farli scannare a vicenda, annullare le loro reciproche velleità ideologiche (in realtà, pura maschera del proprio tornaconto economico), assegnare a ciascuno un ruolo in un jeu de massacre dove non ci sono né eroi né anti-eroi, ma solo carne da macello. Non importa se sei nordista o sudista, bianco, nero, messicano, uomo o donna: il tuo ruolo è quello di mentire, ammazzare, essere ammazzato. Per qualche dollaro in più.
Ciò che garantisce questa anomala e feroce versione del concetto di “rispetto delle minoranze” è il dialogo fluente: il fatto che ciascun personaggio possa dire la sua, e controbattere all’infinito, sulla Guerra Civile e sullo schiavismo permette di evitare la sentenziosità della frase fatta, la retorica dello slogan, il vittimismo condensato in una formula ad effetto. Certo, l’effetto “chiacchiere da bar” e il qualunquismo sono dietro l’angolo, ma è proprio questa la strategia politica di Tarantino: neutralizzare ogni impropria, opportunistica ed ipocrita lezioncina politica con l’arma della dialettica esuberante, del trash talking. Tanto il Paese resterà sempre diviso (ieri nordisti/sudisti, oggi democratici/repubblicani) e l’unica cosa che lo unirà, distruggendolo, sarà la corsa al denaro, al beneficio economico individuale, la competizione estenuante per ottenere la fetta di torta più grande.
I vari Spike Lee di turno auspicavano forse un trionfo del Maggiore Warren, visto che è nero? E invece Tarantino gli ficca due pallottole nei coglioni, visto che è stato così stronzo da umiliare il figlio di un generale sudista in un racconto forse inventato forse no, senz’altro un pezzo di cinema strepitoso, uno dei tanti climax del film. I pasdaran del femminismo fondamentalista pretendevano il successo per Miss Domergue, mezza Elle Driver avvelenatrice, mezza Sposa incassatrice di colpi? E invece no, fa la fine che si merita anche lei, perché non è altro che una volgare assassina razzista, e il fatto di essere donna non la salva certo dal cappio. Il neo-sceriffo sudista? E’ dipinto come uno sfigato cacasotto e paraculo, agli antipodi dell’idea di maschio WASP forte e giusto, e come tale viene canzonato per tutto il film. Con Tarantino funziona così: astenersi buonisti, bacchettoni e tutti quelli che hanno una visione del cinema strumentale alla politica.
Se lo score di Morricone non è niente di eccezionale, a contribuire alla riuscita del film è un cast in gran forma, su cui svetta uno stratosferico, dominante Samuel Jackson (mentre la nomination a JJL sembra un po’ generosa), con il sorprendente Walton Goggins medaglia d’argento. E se l’unico momento veramente disturbante di questo balletto grottesco è il flashback della strage di Minnie, Judy, Sweet Dave all’emporio, il culmine dolente del sarcasmo è quella (falsa) lettera di Lincoln letta nell’ultima scena sulle note di una fanfara miliare. La definitiva spoliazione di ogni retorica e il punto esclamativo sulla rappresentazione di un’America tarantiniana, più che mai iperole dell’ostilità, eterna land of competition, crogiuolo di inconciliabili culture, teatrino di attori ed impostori, porto franco di balordi dal grilletto facile.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta