Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Sentieri innevati.
L’ultima fatica di Tarantino evidenzia, a parere di chi scrive, la (forse) prematura e (probabilmente) inesorabile “discesa” del regista nella normalizzazione del suo cinema. Condizione in fieri non negativa in senso assoluto, ma che depotenzia indubbiamente la portata istrionica (cinematograficamente parlando) del personaggio. Il citazionismo (colto o meno) rimane la sua arma di punta e, mai come in questo caso, si nutre con lo stile dei grandi maestri “western” del passato (a parte l’omaggio “cristologico” dell’incipit debitore, probabilmente, all’amato Fuller de “Il grande Uno rosso”): le poche fasi all’aperto vengono gestite quindi in maniera ariosa, con inquadrature lente ed imponenti, soprattutto nel mostrarci ripetutamente il faticoso avanzare della carovana nella neve, accompagnata dalle ossessionanti note scritte da Morricone per l’occasione. Prerogative e ispirazioni che, in senso assoluto, non avrebbero nulla di negativo, a chi non piacerebbe ispirarsi a Hawks o Ford girando un western ?
L’unico problema con questo approccio è che da Tarantino ci si aspetta una “tarantinata” ad ogni angolo, svolta di dialogo o azione, seppur apparentemente “innocua”, e non un affresco emozionale ed ambientale eccessivamente particolareggiato. Questo nei lavori più ispirati del regista ma anche nella tragedia “da camera” (o da emporio) di questa sua ultima fatica; che poi rappresenterebbe un punto di ritorno, tenuto conto che il suo esordio era, infatti, un gioco al massacro al chiuso (“Le iene”, del 1992). Invece, a più riprese, pur tenendo conto della scelta (concettualmente sacrosanta) di accumulare la tensione e chiarificare gli intrecci tra i vari personaggi prevalentemente nella prima parte della pellicola, si fatica a digerire una certa pesantezza di approccio, soprattutto nei dialoghi. Questi ultimi non pessimi (ho trovato peggiori quelli di “Kill Bill Vol. 2” e di “Grindhouse”), ma innegabilmente medi(ocri) e spesso svuotati di quell’unicum che rese celebre il regista. Oltre a ciò, ci si sorprende per una certa pedanteria di fondo in parecchie sequenze (i rallenty spesso fuori luogo, le scolastiche carrellate circolari) oltre a momenti “a la Tarantino” (appunto) che sanno di risaputo (la camminata sulla neve di Madsen) e iperbolici crescendo sonori (sia vocali che musicali) che spesso, raggiunto l’acme, sorprendono per la mancanza di sviluppi drammatici e di pathos.
Nelle sue oltre tre ore di durata, dopotutto abbastanza scorrevoli (grazie anche allo splendore della sala cinematografica 70mm), fanno capolino a mio avviso anche alcuni buchi di sceneggiatura sotto forma di reazioni poco plausibili di alcuni personaggi ai molti eventi drammatici che si succedono frenetici, soprattutto nella parte finale. Gli attori coinvolti, molti vecchi amici e sodali del regista, risultano ben adattati ai caratteri loro assegnati, principalmente i gigioni Samuel L. Jackson e Kurt Russell.
In definitiva, un lavoro non disprezzabile ma non sempre comprensibile, gestito con la consueta inarrestabile “ipertrofia” scenica, con tutti i pregi e difetti ad essa connessa; forse, tirando le somme, avrebbe giovato una maggiore stringatezza. O, forse, noi spettatori dovremmo adattarci al nuovo corso tarantiniano: un classico, a modo suo.
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