Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Esprimere un giudizio su un'opera fortemente connotata stilisticamente può essere cosa facile ma può altresì rivelarsi operazione molto complessa. Partiamo dall'assunto che il talento di Tarantino è elemento inconfutabile e universalmente riconosciuto. Ora: come porsi di fronte al reiterarsi degli elementi che lo hanno reso unico e riconoscibile e fatto grande il suo cinema? Come valutare l'autocitazionismo, l'autoreferenzialità, l'autocompiacimento sfacciato di questa sua tanto sbandierata ottava fatica? Hateful Eight è un pout pourri dei precedenti capitoli (si badi bene alla scelta di quest'ultimo termine) della filmografia del regista americano. I richiami sparsi nelle tre ore di pellicola a questo o quell'elemento, personaggio, inquadratura, soluzione, battuta, personaggio, scelta grafica o sonora, suddivisione narrativa, del suo passato artistico sono palesi e dichiarati. Inutile addentrarsi nell'aspetto specifico, basta rilevare il dato di fatto. Un gioco di complicità con lo spettatore o l'affezionato pubblico? Può darsi. Un divertimento per pochi eletti? Può altrettanto darsi. Una dichiarazione d'intenti nel sottolineare marcatamente la propria poetica? Più di qualche dubbio. La domanda che sorge spontanea è: se invece le capacità e gli sforzi fossero stati indirizzati al nuovo, all'ignoto, alla ricerca vera? Credo che i maestri abbiano anche questo compito e responsabilità: cimentarsi con coraggio con materie sconosciute, con stimoli diversi, abbattere muri, creare strade, dimostrare guizzi almeno un po' avanguardisti. Pulp Fiction è stato questo, Jackie Brown lo ha confermato, Bastardi Senza Gloria lo ha ribadito. D'accordo, qui abbiamo uno spunto interessante: riunire in territorio neutrale, fuori dal mondo e dalla storia, il Nord e Sud post guerra di secessione; ci sono un paio di brillanti dialoghi politici (a inframmezzarne decine di insignificanti e inutilmente turpiloquiosi: "chiappe, bastardi, negro" a profusione, tanto per cambiare); c'è un uso del formato che presumiamo geniale, perché noi comuni mortali ne abbiamo solo letto sui giornali, senza averlo gustato nei cinema normodotati; c'è un manipolo di attori in stato di grazia (più o meno gli stessi di sempre) diretti in modo impeccabile; c'è un climax da resa dei conti finale, topos del genere (altro western a seguire Django Unchained); la stuzzichevole formula dei Dieci Piccoli Indiani e delle Iene teatralizzata nell'emporio di Minnie; un intrigante prologo infinito; una colonna sonora candidata all'Oscar, a firma Morricone (di cui perdiamo Ouverture e Intermezzo, si dice i brani migliori). Ci sono anche una durata eccessiva, una virata splatter nell'ultima mezz'ora, una sorta di riflessione socio-culturale sulla Nascita Di Una Nazione da Five Points scorsesiani, la solita sottolineatura della convivenza coatta di razze e etnie in USA, l'esplodere della violenza, il passato misterioso dei protagonisti, l'apparire improvviso dell'uomo nell'ombra, il simbolo mitizzante, l'oggetto evocativo (che sia una fantomatica lettera di Lincoln, "amico di pennino" o un'ignota valigetta come nel già nominato Pulp Fiction cambia poco) e molto altro ancora. Ma questo ricco insieme di elementi oltre a saziare come un lauto pasto risulta anche pesante, difficile da digerire, inutilmente ipercalorico. Dopo averlo masticato e digerito ci si chiede se abbia realmente appagato. E alla fine della fiera resta l'amaro in bocca.. Quattro stelle e più alla tecnica, niente da dire …però non più di tre al quadro generale, che difetta gravemente in ciò che non ci saremmo mai aspettati dal simpatico Quentin: l'Ottavo suo film è semplicemente palloso.
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