Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Il racconto di frontiera dei cacciatori di taglie che spolpano gli ultimi rimasugli di carne legata all’osso di una nazione smembrata, si spoglia della classicità del genere per mettere in scena tra i fischi del blizzard che si insinua tra le assi del rifugio, un kammerspiel western violento ma profondamente ironico.
C’è un film nel quale un gruppo di persone bloccate in un luogo sferzato dal gelo e dalla neve deve scoprire chi tra loro fa finta di essere qualcosa d’altro. Prima di venire sterminati. E’ un film con Kurt Russel ma non è La Cosa.
C’è un film nel quale un gruppo di persone, costrette a condividere un luogo isolato, deve scoprire il colpevole di un omicidio che sicuramente è tra loro e molto probabilmente ucciderà ancora. Solo un’abile detection deduttiva potrà smascherare il colpevole. O i colpevoli. Ma non è Dieci piccoli indiani di Agatha Christie
C’è un capanno che custodisce un segreto orribile. Gli otto personaggi ignari dovranno affrontare, chiusi in un luogo maledetto, l’orgia di sangue che inevitabilmente li coinvolgerà. Ma non è La Casa.
C’è un film western ambientato sotto una tormenta di neve che non lascia scampo e che comprende tutto quanto detto sopra. E’ un western perché la colonna sonora è composta da Ennio Morricone, estremamente riconoscibile nei sui stilemi miscelando una melodia cha pare partire da un’eco melanconica per poi progredire in un ritmico incedere marziale, autoreferenziale se vogliamo. A’ la Morricone per un film che è in tutto e per tutto à la Tarantino.
C’è una carrozza che scivola nella neve ai bordi di una tempesta. Sulle montagne del Wyoming, nel gelo e nella purezza di una natura incontaminata, negli stessi posti dove circa trent’anni dopo un cacciatore di pellicce, Mr.Glass verrà attaccato da un orso e passerà attraverso la cruna del proprio infernale ago privato. Ma questa è un’altra storia.
The hateful eight è un western pulp che riconosce le maschere del tempo (il film si svolge da qualche parte a ridosso della notte di Natale pochi anni dopo la fine della guerra di secessione) ma le trasporta in un altrove privato, ipotetico. Oltre il genere a cui dichiara di appartenere, in realtà ambientato nelle montagne della follia cinefila tarantiniana, il film si scrolla di dosso le etichette per definirsi solo nella purezza delle immagini, nelle dinamiche dei personaggi, nel linguaggio argutamente rettile che adottano, in una scomposizione spazio temporale di quell’unità di luogo e tempo tanto da far sembrare la locanda una città con i suoi quartieri sozzi, il suo bar, la strada luoghi privati e pubblici.
La sensazione è quella dello stordimento sensoriale, della non corrispondenza tra spazio esterno e interno. Come se l’immensità delle distese innevate si fosse sciolto e ricomposto al focolare degli otto spiriti erranti forzosamente riuniti in quella locanda. La locanda di Minnie.
Girato in un formato inconcepibile per i tempi digitali che stiamo attraversando, The hateful eight di Quentin Tarantino è un incredibile viaggio nell’essenza del cinema. E pensare che il formato 70mm Superpanavision è un catalizzatore di luce formidabile molto indicato per filmare i grandi spazi e Tarantino l’ha utilizzato per riprendere otto piccoli bastardi dentro una capanna sferzata dal blizzard fa capire che genere di luce e dettaglio possa aver raggiunto nella composizione delle scene d’interno.
La capanna di Minnie è un luogo quasi metafisico, un incrocio luminoso tra la tradizione western e l’unità di tempo e di luogo cara al regista fin dai tempi di Resevoir Dogs.
Quella che all’inizio era un’esigenza di budget si è poi evoluta di un marchio distintivo. Gli spazi stretti si addicono alla poetica pulp di Tarantino che accorda il suono delle pistole alla grandinata verbale che riverbera sulle pareti moltiplicando i segni presenti nelle sue inquadrature.
Quella tensione che premeva Shoshanna nel petto mentre il colonnello Hans Landa torchiava suo padre con la perfidia velenosa della cultura e della conoscenza psicologica delle sue vittime, in The Hateful Eight viene slabbrata per tutta la durata della storia in un gioco al massacro prima psicologico, poi carnale.
Quel gioco malato che il proprietario terriero Calvin Candie imponeva al Django cowboy nero liberato da Doc. King Schultz e alla bella Broomhilda nella sala da pranzo, viene proposto e moltiplicato per tutti i personaggi del film.
Sono otto e sono bastardi. Senza gloria. E’ finita la guerra ma le divisioni si incancreniscono nel never surrender che anima ogni personaggio e si confermano nel diorama in scala di una nazione che sta per (ri)nascere. Il caminetto è la Georgia, il bar è Philadelphia. Il tavolo da pranzo , la zona neutrale.
Confederato, unionista, bianco, nero, uomo, donna, vittima e carnefice. Ognuno è qualcosa e al tempo stesso qualcosa d’altro. Il racconto di frontiera dei cacciatori di taglie che spolpano gli ultimi rimasugli di carne attaccata all’osso di una nazione smembrata, si spoglia della classicità del genere per mettere in scena tra i fischi del blizzard che si insinua tra le assi del rifugio, un kammerspiel western violento ma profondamente ironico.
Piccoli omicidi tra sconosciuti. Forse. Elementi di commedia nera e sarcasmo si impastano all’iperrealismo verbale dei personaggi inconsci di essere spogliati di ogni verosimiglianza dal loro creatore per essere portati alla mattanza con stile, crudeltà, giocoso senso del ritmo. Sanno che moriranno, ma si dibattono reagendo ai segnali disseminati sul palco con meccanica precisione. Un effetto Pavlov applicato alla drammaturgia.
La potenza del cinema classico si contamina con la polpa postmoderna del racconto lacerato nei tempi, evocato nell’esasperazione verbale che forma un ipertesto storico dal quale i personaggi attingono la loro natura. C’è l’iperrealismo estatico di ogni singolo granello di luce, di ogni oggetto innaturalmente illuminato da fonti luminose ignote, dal millimetrico lavoro sul suono che sospinge l’astrazione visiva nei territori intimi dell’irrazionalità. Eppure tutto funziona. A dovere.
Così è straordinaria la prima parte che gioca tutto sulla vaghezza dell’identità, condizione necessaria per deflagrare nella seconda parte, concedendo ai personaggi di lasciare la bidimensionalità del personaggio per crescere nell’autoaffermazione del sé, del proprio mito lasciato vagare di bocca in bocca nei selvaggi tempi post bellici. Nomi, soprannomi, azioni, opere, omissioni, tutto viene confessato impastando il vero a l’essenziale, il falso al necessario per mostrarsi e nascondersi alla bisogna.
Nella seconda il risultato di questo gioco ad incastro crolla sotto il peso della verità. E la verità scivola nel sangue e nell’esasperazione ludica dello splatter.
Momenti straordinari inchiodano la visione di questo film alla mitologia tarantiniana: il flashback nell’emporio di Minnie; la detection deduttiva con stufato che inchioda alle proprie responsabilità chi deve rispondere di ciò che ha fatto; il racconto del nordista nero di come ha ammazzato il figlio del confederato bianco. Il bricco di caffè. Lo stufato. Le caramelle e le pallottole.
Indizi veri e falsi, suggerimenti, deviazioni. In quella capanna sferzata dal blizzard succede tanto e di tutto ma sembra che non sia successo nulla.
Grandi gli attori al solito: Samuel L. Jackson, Kurt Russel cacciatori di taglie. Jennifer Jason Leigh la condannata psicopatica che omaggia la Carrie depalmiana. Un ottimo Walton Goggins da godere in tutto il suo splendore sciorinare un sarcastico accento sudista (scandaloso averlo ignorato nelle nomination per l’Oscar). Tim Roth che recita à la Christoph Waltz, garrulo e sofisticato dottore che sembra il fratello del Dr. Schultz. Michael Madsen bovaro che si reca dalla mamma dalla parlata strozzata. I film di Tarantino vanno goduti assolutamente in originale perché la musicalità e i toni degli accenti sono parte integrante dell’economia della messa in scena. Vanno visti con la purezza di cuore del bambino e lo sguardo attento del cinefilo. The hateful eight non è da meno.
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