Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film
Grande western atipico e contaminato di parole ed intrighi sanguinolenti ed inevitabilmente pulp: un incastro sadico e cervellotico che cresce e si chiarisce pian piano, con incedere machiavellico ed apparentemente contorto, ove il gran regista trova il tempo ed i modi efficaci per districare abilmente una matassa apparentemente senza via d'uscita.
OSCAR 2016 PER LA MIGLIOR COLONNA SONORA A ENNIO MORRICONE.
"Nessuno arriva qui senza una dannata buona ragione"...suggerisce un manifesto (alternativo?) del film.
Tra le distese innevate dello Wyoming, dopo che la musica appropriata ed emozionante di Ennio Morricone (sempre magico e da brividi) introduce titoli di testa gialli ed un pò rozzi alla maniera del western più classico, una carrozza con sei cavalli si dirige verso la cittadina di Red Rock: su di essa un cacciatore di taglie, John Ruth, sta trasportando una fuorilegge di nome Daisy Domergue, per intascare la taglia che pende sulla sua testa, pari a 10 mila dollari.
Sul cammino, la carovana si imbatte in un cacciatore di taglie nero, ex ufficiale Marquis Warren, decorato e lodato addirittura da Lincoln, ora divenuto pure lui cacciatore di anime, che siede a cavalcioni di tre cadaveri in cerca di un passaggio. Assieme ad un altro tipo piuttosto singolare e laido, che riferisce di essere il nuovo sceriffo della contea di destinazione del gruppo, il gruppo viene colto da una bufera di neve e costretto a rifugiarsi presso una locanda gestita da tre donne, inspiegabilmente assenti. Al loro posto, il gruppo trova alcuni altri uomini, mai visti prima, come loro intenzionati a restare al riparo per almeno tutta la notte da quella tempesta di gelo che si sta abbattendo tutto attorno.
Ma se John Ruth chiarisce subito che la sua preda non è spartibile con altri contendenti, piano piano le verità sulle identità dei soggetti presenti vengono a galla, e così pure le intenzioni di sopravvivenza che si fanno strada tra gli ospiti, tutti presi a superare quella terribile notte prima che la carneficina abbia inizio.
Uscito nelle sale francesi il 5 gennaio, The Hateful Eight è uno splendido western contaminato di parole ed avvenimenti concentrici, di generi cinematografici che se ne impadroniscono avidamente, imbastardendolo ma rendendolo più forte e potente; di intrighi sanguinolenti utili a ribadire col sarcasmo che ben conosciamo nell'Autore (la A maiuscola è d'obbligo), l'ipocrisia giustizialista della società americana degli albori.
The Hateful Eight necessita tempo per maturare dentro ognuno di noi spettatori e richiede, sempre da parte di noi spettatori, la pazienza di saper ascoltare e concentrarci almeno per una prima ora, onde poter inquadrare, almeno genericamente, la situazione di partenza e godersi di filato tutta la attanagliante seconda parte: in seguito infatti il regista, grazie a flash back esplicativi e altamente funzionali, si preoccupa fino all'ossessione di far quadrare tutto e man mano che l'azione prende il sopravvento sulla parola, man mano che alle vedute e agli spazi aperti subentra la claustrofobica e soffocante limitatezza dello spazio chiuso, teatro di un regolamento dei conti senza precedenti, il film a quel punto potrebbe per noi spettatori, letteralmente avvinti dall'azione, non finire davvero più.
E le quasi tre ora di spettacolo corrono via filate, mentre immedesimati e sconvolti, ci dirigiamo fino al regolamento dei conti che ci fa entrare in una struttura ellitica ad eliminazione in stile Agatha Christie ed i suoi 10 piccoli indiani: "e poi non ne rimase più nessuno" non è una frase fatta, ma una conseguenza pertinente, prevedibile, ma mai, e poi mai, da dare per scontata.
Un cast di nomi noti per il grande regista (Samulel L. Jackson su tutti, ma pure Kurt Russel, Michel Madsen e Tim Roth sono recidivi e grandiosi; tra le new entry, Walton Goggins, sorriso volgare e sguaiato, tutto denti aguzzi e ferini e bocca impastata, dovrebbe aggiudicarsi almeno una nomination come miglior attore non protagonista, mentre la grandissima (ma già lo sapevamo da decenni) Jennifer Jason Leigh non solo merita la nomination, ma la statuetta per lei quest'anno è d'obbligo, senza nessuna scusante od attenuante di sorta. Pesta di botte, occhio nero, denti marci e/o spaccati dai colpi ricevuti dal suo aguzzino, la donna sfodera una grinta ed una capacità di pianificazione che sa di diabolico e che la rende, a tutti gli effetti, molto meno vittima di quanto umanamente potrebbe apparire. Notevole pure il gran vecchio Bruce Dern, mentre una star come Channing Tatum accetta un ruolo fondamentale, ma di fatto minore, pur di rientrare a far parte del cast di un grandissimo film e tra le fila di uno dei migliori registi degli ultimi decenni.
Tarantino, come noto e pubblicamente dichiarato già nei titoli di testa, giunto ora alla sua ottava opera cinematografica, si dimostra ancora una volta, e ben meglio che nel pur valido Django, oltre che ottimo regista, anche abile e astuto sceneggiatore, in grado di giocare sull'intrigo, rielaborarlo, spianare tutte le verità solo in apparenza nascoste o tenute in disparte; rielaborando lo script e prendendosi il tempo necessario per far decollare l'azione, che trasforma il western classico in un vero e proprio horror venato di ironia e malizia, le stesse qualità gestite anche qui alla perfezione, come non le si ricordava dai tempi di Pulp Fiction.
Anche qui come allora, dove il povero Bruce Willis incappava in un maniaco sessuale dalle spiccate tendenze sado-omosex, in un paio di situazioni "pazzesche", si ripropone la medesima tematica: da una parte come ennesima variante della brutalità che appare innata ed impossibile da sradicare dall'indole umana, dall'altra, verso la fine, come esilarante variazione, eretica, irriverente, proprio per i toni farseschi in chiave velatamente (ma nemmeno troppo) omoerotica, di un rapporto epistolare votato all'apprezzamento tra il più celebre e celebrato degli americani di quell'epoca, ed il nostro devastato superstite, ex eroe di guerra ora dedito per fini di lucro alla bassa macelleria.
La rutilante, emozionante e tesa colonna sonora di Ennio Morricone è la ciliegina che rende questo T.H.E. un vero e proprio capolavoro di suspence, commistione straordinaria di generi cinematografici e dialoghi indimenticabili ed affilati quasi quanto i denti spezzati della straordinaria Daisy Domergue-Jennifer Jason Leigh.
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