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Queen of Earth

Regia di Alex Ross Perry vedi scheda film

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La recensione su Queen of Earth

di mck
8 stelle

La natura panica dell'esistenza.


“Mi fa male la faccia”, ma non siamo in una parafrasi evolutiva antonioniana: Catherine

 


{l'opera - scritta e diretta (e prodotta - la compagnia messa in piedi all'uopo porta un nome magnifico: “Her Majesty September” -, assieme alla stessa protagonista e a Joe Swanberg) da Alex Ross Perry [classe '84, spesso anche attore, per sé e per altri, ma non in questa occasione: “Impolex” (un “Fear and Desire” che prende spunto dai topoi e dai tropi del “Gravity's RainBow” di Thomas Pynchon. E...si, avete letto bene), “the Color Wheel”, “Listen Up Philip” (da questo film provengono i veridici romanzi finzionali creati per l'occasione che legge Virginia: da notare il passaggio di testimone, là dove in Philip Roth l'alter ego Nathan Zuckerman è un giovane e poi adulto scrittore alle prese coi suoi idoli - E. I. Lonoff, “aka” Saul Bellow, “the Ghost Writer” - e amici - Coleman Silk, “the Human Stain” -, in A.R.Perry l'assonante Ike Zimmerman è il venerato maestro e Philip è...il giovane scrittore. Altre reminiscenze: John Updike, Peter Yates, Don DeLillo...), “Golden Exits”] - è preponderatamente incentrata sul volto, il corpo, gli umori (metaforici e reali) e la presenza scenica di Elisabeth Moss (“West Wing”, “Mad Men”, “Top of the Lake”, “Listen Up Philip”, “High Rise”, “the HandMaid's Tale”, “the Square”, e una sequela infinita di più o meno Sundance dalla metà degli anni 10 - terminata Mad Men - in poi, tutti suppergiù da recuperare), che abita costantemente i dintorni del set passeggiando con spiralante girovagare perenne per metà del tempo in lungo, in largo e in tondo indossando a guisa d'uniforme un (in)completo composto da sottoveste alonata e spolverino pataccato e bricioloso e assumendo via via sempre più irrimediabilmente la parvenza di una sembianza jacktorrancesca, mentre l'altra metà la passa coricata in varie forme e condizioni sonnamboliche, distese, riverse}, 

 

 

la furiosa (“I could murder you right now and no one would ever know”, dirà a un tale/tipo/tizio) Regina della Terra [qui in un dialogo con un altro indigeno (redneck/appalachiano) del posto (- "They're terrible people. [...] That kind of money rubs people the wrong way. [...] You be careful now. You never know." - "Never know what?" - "Exactly."],

 

 

ha espulso dagli occhi le ossa del viso spezzate dal pianto per la morte in sentor di suicidio del padre (artista multimediale - scultore, pittore, architetto - di riconosciuta grandezza mondiale alla cui ombra, protettrice e ingombrante, la figlia ha cercato di far fiorire una propria carriera) e l'abbandono reciproco dall'impegno relazionale col compagno, e cerca abitudinario ricovero e conforto [Catherine, anch'essa pittrice - oltre che ex-assistente del genitore e maestro e curatrice della sua eredità -, ritrattista/paesaggista, però "arrugginita" (una delle sue ultime opere è il giocoso ritratto paterno - in vita - sotto forma di teschio), lo chiama e definisce "esilio", questo riparare in un porto sicuro d'asilo montano e lacustre] e consueta consolazione e tutela accanto all'amica di una vita, Virginia

 

 

[una Katherine Waterston (“Night Moves”, “BoardWalk Empire”, “Inherent Vice”, “Steve Jobs”, “Alien: Covenant”, “Logan Lucky”) - dai lineamenti mutevoli e dai variegati tratti fisiognomici, adattantisi via via ad ogni film: qui, una via di mezzo tra Laura Linney e Maura Tierney - altrettanto differentemente brava rispetto alla collega, in un ruolo paradossalmente - perché lavorante in sottotono - più nettamente sfumato e ambiguo: la sua è una parte liminale, accanto, più “fredda”, liscia e meno delineata, in modo da poter ricevere ed accettare le nostre maschere e proiezioni, perché in un certo senso lei interpreta noi, gli spettatori, il pubblico],

 

 

che - con combattiva, ulcerosa e vicendevole onestà (ma c'è solo amore in questa lacerante sincerità restituita), attraverso uno scambio di pulsioni, fabbisogni, esigenze e necessità, e rispecchiamento d'indole, retroterra e desideri -, anche lei proveniente da un recente trauma sentimentale e/o mortuario, la ospita per un altro finir d'estate insieme: la sceneggiatura, “lineare”, per esprimersi al meglio sfrutta la luce e il tempo (visivo e musicale), collabora con le altre arti costituenti il cinema per riuscire ad esprimere al meglio non solo “i fatti così come sono e perché” ma anche come si presentano nell'atto di essere, esistere, manifestarsi, nel momento in cui scatta la proverbiale goccia che scioglie tanto il mascara quanto l'argine ad ogni resistenza al crollo della diga tra lo stato di natura e il contratto sociale declinati al singolo essere umano che epigeneticamente stipula quegli accordi con sé stesso nei confronti degli altri, del prossimo, nello specifico generico la (inter)dipendenza dalle persone sulle quali è fondata la nostra quotidianità e il nostro io, siano esse rappresentanti di legami famigliari di sangue, d'amore, d'amicizia: la fotografia (1.78:1, Super 16mm) di Sean Price Williams - sodale da sempre del regista, di cui ha illuminato tutti i film - rosy-fingereddawneggia seventies, spesso pittante sequenze lunghe, fisse, e abitate, percorse e mosse da lievi movimenti di macchina e zoom altmaniani (i quasi 10 minuti di dialogo / doppio monologo in piano sequenza, avanti e indietro con la MdP dai e sui volti delle protagoniste, a proposito di fuorvianti lettere manoscritte e amori adolescenziali ripresentantisi), il sole radente sulla carne e la pelle a pervadere il mondo;

 

 

il montaggio - vero, autentico elemento portante e costitutivo della sceneggiatura, di stampo ferocemente (anch'esso) altmaniano - del documentarista Robert Green [al quale si affianca un grande lavoro (L.Alper, S.Henshaw, R.M.Price) di sound design] entrato a far parte della squadra di Perry da “Listen Up Philip”, surrealmente disorientante ed ariosamente claustrofobico, scandisce il tempo tramite l'utilizzo di cartelli recitanti di volta in volta il nuovo giorno all'opera, in modo però da fargli perdere funzione e forma, significato e sostanza, tuttavia senza farlo collassare centripetesponenzialmente come avviene nel già citato per interposta persona “the Shining”, in cui “il/un” mercoledì è specificato, si, ma non la settimana cui appartiene, e il tempo letteralmente converge in abisso, si fraziona esponenzialmente in unità via via sempre più piccole (1. il Colloquio, 2. Chiusura Invernale, 3. un Mese Dopo, 4. Martedì, 5. Giovedì, 6. Sabato, 7. Lunedì, 8. Mercoledì, 9. Ore 08:00, 10. Ore 16:00), ma travasa e travalica i mesi e le stagioni facendo (letteralmente) dialogare diacronicamente l'oggi con gli stessi giorni dell'anno scorso;

 

 

e le musiche di Keegan De Witt (anche lui collaborante col regista da “Listen Up Philip”, e autore, tra gli altri, dello score di “the Hero”), che riescono a tradurre e traslare condizioni, sentimenti ed emozioni umane quali depressione, gelosia, desiderio, egoismo, tristezza, melancolia ↔ malinconia, felicità (ché bisogna pur dare un nome a quella fugace sensazione passeggera), e che sono, al contempo, da una parte, traghettatrici delle stesse in vesti d'esche e trappole che conducono inesorabilmente e irreversibilmente verso lo scatenarsi dell'evento epifanico, sino alla commutazione e permutazione dei ruoli (ipallage/enallage comportamentale), e, dall'altra, coadiuvano l'avvento di una catarsi rivelatoria [cristallizzata ed espressa dall'ellissi spaziotemporale del teorico e ideale campo-controcampo fuori sincrono finale, con a seguire i titoli di coda disegnati da Teddy Blanks, ai quali si può assistere da qui (ovviamente attenzione al parziale spoiler), by ArtOfTheTitle], innalzando un rifugio sonoro dalla realtà in frantumi.

 


Virginia: “Please, don’t talk to me like that.”
Catherine: “Like what?”
Virginia: “Like you’re superior to me, or...any of us.” 

 

 

Una scena cardine, misteriosa (per com'è stata girata), è quella, posta a metà film, in cui Catherine, salite le scale e raggiunto il pianerottolo di fronte alla porta aperta della camera di Virginia, si ferma e osserva l'amica giocare flirtando (coccole-preliminari-petting leggero) con Rich (nomen omen, il più onesto...), un bravissimo Patrick Fugit [altra segnalazione la merita la fugace e memorabile "comparsa" (abituale, anzi immancabile in Perry) di Kate Lyn Sheil ("Impolex", "the Color Wheel", "Green", "Listen Up Philip", "the GirlFriend Experience", "Buster's Mal Hearth")], e quest'ultimo si alza dal letto, si avvicina alla porta, si guarda intorno come se Catherine non fosse lì, ma assicurandosi comunque che lei capisca che lui l'ha vista e sta solo facendo finta d'ignorarla, e gliela chiude dolcemente in faccia. 

 

 

“You are worthless. […] You are weak and greedy. And selfish. And you are the root of every problem. You are why people betray one another. You are why there is nowhere safe or happy, anymore. You are why depression exists. You are why there is no escape from indecency and gossip and lies.” - Catherine a Rich. 

 

 

Queen of Earth” è un film, si diceva, altmaniano (“Images”), altmaniano nell'intimo, un film segreto, che raccoglie e restituisce esperienze di realtà - nonostante il limite della classe sociale (upper) rappresentata - condivisa. I due riferimenti principali -[allargando invece il discorso sino a comprendere tutta la carriera di Perry, alcuni sono esplicitamente dichiarati (off topic: Criterion Collection - Top 10 List by Alex Ross Perry), altri “solo” evidenti (Roman Polanski, Ingmar Bergman, John Cassavetes, Francois Truffaut, Woody Allen, Brian De Palma, Peter Weir, Nicolas Roeg), e altri ancora facilmente accomunabili, a partire da Todd Solondz, Peter Strickland ("the Duke of Burgundy") e Miranda July, e proseguendo - divagando ancor più all'interno dell'opera omnia in farsi del regista, con un pensiero preponderante verso "Listen Up Philip" - con sottili eco di Noah Baumbach, Alexander Payne (l'esordio di "the Passion of Martin") e di Wes e P.T. Anderson, ed approdando infine - ritornando così al film in questione - al ben più presente mumble-c/g-ore di Josephine Decker e del già citato Joe Swanberg, con un pensiero collaterale a Denis Villeneuve (ancora, gli esordi: "un 32 Août sur Terre" e "Maelström", sino ad "Enemy")]- sono proprio “3 Women”, uno dei (mis)conosciuti capolavori del grande autore di Kansas City, e “Melancholia” di Lars von Trier {il momento finale di “Queen of Earth” - il netto, drastico, veloce, sconcertante stacco di montaggio contrario e simmetrico - è la condensazione dell'evoluzione percorsa da Justine e Claire: il loro [sorelle e (non) amiche] orbitare asincrono attorno alla Questione imm-a/i-nente sino allo scambiarsi le parti nella Danse Macabre della - muliebre, cangiante, perfettibile, irrisolvibile - Vita}. Il primo - working/middle class - è un'intercapedine tra l'inimmaginabile esistere tangibile e la culla onirica del sogno, il secondo è un pacifico lottare e un guerresco arrendersi al mondo: entrambi coincidono col creato poetico...golfistico (più upper class di così!) di Walter Hagen, "Sei qui solo per una breve visita, / non affrettarti, non preoccuparti. / E assicurati di annusare i fiori lungo la strada", e col senso delle cose vonnegutiano, "Quando siete felici, fateci caso". E "Queen of Earth" esplora la lunga teoria della caleidoscopica, eterogenea, multiforme varietà del consorzio umano, piangendo ilare e lacrimando sorridente.

 


Virginia: “I feel like I’m...seeing you for the first time.”
Catherine: “What do you mean?”
Virginia: “I always thought you were so perfect. I thought you had it all figured out. But you were just surrounding yourself with men. With James, with your father... They took care of you. Without them... [e qui la bravura di Katherine Waterston esplode, inscenando una delle espressioni migliori: sorpresa, amicizia, delusione, affetto, complicità, disappunto, sollievo, amore] ...here you are!”    

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