Regia di Woody Allen vedi scheda film
Il caso e la casualità, la logica e l’istinto, Kant e Heidegger, la banalità del male e il delitto perfetto: «fermatelo!» dice qualcuno in sala quando si riaccendono le luci. E no, non ci si rivolge all’irrational man titolare della storia, in una sorta di proiezione nella ricezione della catabasi messa in scena, ma all’autore che proprio sulla razionalità ha costruito, lungo cinquant’anni, un personaggio, un mondo. È una critica ingenerosa, si dirà. Ed è forse così, benché le maggiori perplessità provengano da una generazione che rappresenta il vero punto di forza del prodotto-Allen di questo millennio – malgrado accorgimenti commerciali in direzione di una maggiore attrattiva: il ricambio del suo pubblico. Un film di Allen, al di là dell’esito, è un film di Allen: pare una banalità detta in questo modo ma stile, linguaggio, forma, contenuti rimandano continuamente ad un universo che a sua volta s’alimenta delle passioni e delle ossessioni dell’artefice-demiurgo. Un film, insomma, che mantiene ciò che promette in nome dell’eterno ritorno dell’uguale anzitutto figurativamente (la solita, esemplare composizione del quadro), la commedia umana iniziata alla fine degli anni sessanta e da considerarsi nella sua completezza come un chilometrico spettacolo in cui anche le situazioni apparentemente più distanti covano affinità e promuovono parallelismi, peraltro fotografati all'incirca omogeneamente e attraversati da una fedele colonna sonora jazz. La commedia umana, via. Or dunque sarebbe fin troppo facile esercitarsi sterilmente su similitudini, riletture, echi, rievocazioni che abitano Irrational Man e lo collocano coerentemente in questo sistema, così come non so fino a che punto sia necessario classificarlo in uno dei consueti filoni individuati nella filmografia alleniana.
È ovvio che siamo nel filone serio (quello che, per intenderci, ha dato il miglior Allen dell’ultimo ventennio: l’ultracitazionista e bellissimo Blue Jasmine) ed è ovvio che la letteratura russa sia un totem irrinunciabile (non c’era Dostoevskij all’origine del cupo capolavoro Crimini e misfatti – ma anche di Match Point?). Ma è altrettanto ovvio che nulla appare davvero ispirato da una ragione che non sia la sconfinata riflessione sulla ragione, così importante nell’economia del racconto da sovrastare l’azione in sé, segnalandosi alla stregua di una discettazione teorica che si serve della messa in scena per ragionare attorno ad un misfatto che è anche un crimine. D’altronde il devastato professore dell’esimio Joaquin Phoenix non ammonisce gli studenti sulla differenza tra «le stronzate dei filosofi e la vita vera» lasciando emergere agli occhi dello spettatore quanto sia contraddittorio il suo deviato comportamento? Un film sulla sfiducia nei confronti degli intellettuali o sul cattivo uso che gli intellettuali fanno di se stessi per (non) poter essere felici? O semplicemente un film che merita quasi soltanto per la buona costruzione dei due personaggi femminili (l’amara Parker Posey, alle porte della mezz’età, una spanna sopra la stupenda Emma Stone, pressappoco una detective anche dell’inconscio) e per qualche momento di tensione o comunque degno di attenzione (l’episodio della festa studentesca, la scoperta del crimine, il prevedibilissimo finale)? Alla fine, appesantito da due voci narranti che spiegano troppo come in un romanzo, questa parabola sulla morte funziona più per il suo potenziale tragico che per ciò messo in atto: un po’ pochino per uno che, intrattenendo, non vuole lasciarci cedere alla trappola della speranza.
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