Regia di Richard Linklater vedi scheda film
In questa interessante pellicola Linklater (che come il suo protagonista da giovane aspirava a diventare giocatore di baseball professionista) fissa l'intervallo (sempre problematico) che separa la spensierata giovinezza dall’età adulta, un momento di passaggio che gli permette di fissare il tempo e il suo divenire con il suo inconfondibile stile.
…Stringi forte le dita sui tuoi vent’anni… domani finirà anche il tuo carnevale. (S. Endrigo)
Cantando a squarciagola la hit del momento (siamo nel settembre del 1980 e il brano in questione è My Sharonna dei Knack): è così che inizia questa ultima fatica di Linklater, ed è subito l’atmosfera giusta per far immergere lo spettatore in quel lontano, mitico passato.
Sovrapponendo la sua voce a quella della radio che la trasmette a tutto volume, è il giovane Jake Bradford che sta viaggiando sulla sua Oldsmobile 442 alla volta della Southeast Texas State University che la canta. Il ragazzo, che ha ottenuto un posto come lanciatore nella rinomata squadra di baseball di quella Università, si appresta dunque così, con la spensieratezza gioiosa della sua età, a dare inizio al suo nuovo corso di studi nel campus della struttura scolastica che lo ospiterà per tutta la durata dell’anno accademico, dove alloggia in una casa affollata di compagni che passano il loro tempo più che a studiare, a bere birre, ballare nei club e fare feste e allenamenti sportivi alla perenne ricerca di avvenenti fanciulle da sedurre e portarsi a letto e il cui obiettivo primario sembra essere dunque quello di godersi la vita con l’incosciente imprudenza di una spensierata goliardia che sembra non debba finire mai e che li porta a fantasticare (più che a progettare) sul roseo futuro che li attende e al quale ritengono di avere pieno diritto.
Manca ancora qualche giorno però prima che vengano inaugurati i corsi e Jake con il suo bagaglio di valige, di giradischi e una cassa piena di “favolosi” LP generazionali che si è portato appresso, ha così tutto il tempo per ambientarsi e fare nuove conoscenze: di fatto (come vedremo nel prosieguo della storia), lo aspetta un lungo ed intenso weekend di turbolenze anche emotive, evidente metafora di quel momento di passaggio destinato a catapultarlo dalla giocosa sconsideratezza giovanile all’età più riflessiva e problematica della maturità: tre giorni davvero memorabili (è questo l’arco di tempo preso in esame dal regista) destinati a incidere radicalmente sulla sua esistenza durante i quali avrà modo non solo di fare la conoscenza dei locali più in voga da frequentare per non essere considerati “out”, ma anche di Beverly che studia teatro ed ha interessi diametralmente opposti ai suoi (e dalla quale è fortemente attratto) e della buffa comunità tutta maschile (filosofi logorroici e un po’ cialtroni e vanesi narcisi orgogliosi delle proprie doti muscolari) dei compagni di squadra e di appartamento, ma anche di metabolizzare tutte le “regole” (scritte e non scritte) che disciplinano con i loro riti e le loro ossessioni, l’attività goliardica del college.
E’ così che il regista, sulla scia di Danzed and confused (La vita è un sogno) del 1993, del quale potrebbe essere benissimo considerato un seguito, aprendo una breve finestra su quest’ultima estate febbrile e rutilante, torna di nuovo ad esplorare da par suo e con la sua inconfondibile leggerezza di tocco, l’universo giovanile americano immerso nel turbinio degli anni centrali della seconda metà del secolo scorso e quindi colto e riprodotto in un momento davvero cruciale segnato da eventi destinati a modificare sostanzialmente il volto del mondo e a trasportarlo bruscamente dalla libertà (in)consapevole (anche sessuale) degli effervescenti anni ’70 contrassegnati dalla fine della guerra con il Vietnam, e dalla presidenza democratica di Jimmy Carter ormai al crepuscolo (e non ancora segnati dall’ombra scura e minacciosa dell’Aids), a quelli del decennio immediatamente successivo, di nuovo pieni di tensioni sociali e di imbarbarimento dei costumi, indiscutibilmente fra i più bui, reazionari e qualunquisti della seconda metà del novecento con l’improvvisa sterzata a destra che aprì la porta all’edonismo reganiano (quella specie di legge della giungla economica fondata sul consumismo sfrenato in cui non c’èra più spazio per la solidarietà sociale o l’altruismo e dove la competizione per emergere, diventerà spasmodica, basilare e priva di ogni scrupolo, finalizzata a sfruttare a proprio esclusivo vantaggio e tornaconto, tutte le disuguaglianze insite già per sua natura nel sistema liberista e capitalistico la cui nefasta influenza si è riverberata fino ai giorni nostri diventando di fatto un irrinunciabile dogma a cui – volenti o nolenti - tutti ci inchiniamo ossequienti senza minimamente considerare i danni che ha prodotto e che produce.
Di pari passo con la Storia, anche il panorama musicale stava rapidamente trasformandosi divaricando in varie direzioni (e la testimonianza più diretta ed esplicitamente rilevante, ce la dà proprio Linklater con la spumeggiante, strepitosa colonna sonora che accompagna il film e che diventa a sua volta un “personaggio” reale del racconto).
È’ davvero sorprendente infatti il modo in cui riesce a “farla parlare” al fine di rendere più chiaro (e metaforicamente pregnante) il suo discorso (una prerogativa questa che si ritrova spesso nel suo cinema) e farci così percepire attraverso la diversità dei differenti “sound” che la compongono, la complessa vivacità davvero “trasversale” del mutevole scenario musicale in movimento di quel tempo, anch’esso alle prese con i grandi fermenti di cambiamento che vedevano fronteggiarsi in strenua competizione fra di loro il rock declinato in tutte le sue forme, la discomusic e quella pop, l’heavy metal, il punk e il post-punk, il country e l’hip-hop i cui primi vagiti risalgono in effetti al 1973, ma che solo negli anni a cavallo fra gli ottanta e i novanta avrà poi la giusta esposizione mediatica necessaria a fargli varcare definitivamente i confini americani ed espandersi così un po’ dappertutto. Quelle correnti insomma che si stavano contendendo il primato nel mondo (le tracce musicali o - per meglio dire ancora - il frullato sonoro che caratterizzerà proprio il decennio degli ’80 che spazia da Blondie a Neil Young per allungarsi fino ai Pop Muzik, ma con gli Chic o il primo rap dei Sugarhill Gang che fanno ancora capolino dai tardi anni ’70. Tutto questo senza ovviamente dimenticarsi di accennare anche alle mode culturali di quella generazione ormai lontana come il capitolo 9 del fantascientifico Cosmos di Carl Sagan[1] che nell’immediato incise profondamente sui desideri di una buona parte dei ventenni dell’epoca.
Linklater è davvero bravissimo a coordinare tutto questo dentro a una struttura che in apparenza potrebbe sembrare persino disomogeneamente dispersiva ma che lui riesce invece a mantenere ben salda fra le mani, il che fa sì che Tutti vogliono qualcosa sia un film da ascoltare (e soprattutto da vivere in diretta) prima ancora che da vedere.
Non va dimenticato infatti che il titolo originale (Everybody Wants Some!!) una volta tanto traslato letteralmente anche in Italia ma purtroppo senza i due punti esclamativi che sono invece essenziali e irrinunciabili (a conferma della ottusa stupidità dei nostri traduttori) poiché sono un indubbio, accertato omaggio (e un riferimento tutt’altro che casuale) a uno dei pezzi più celebri dei Van Halen (e anche questo vorrà ben dire qualche cosa!).
Il momento che Linklater sceglie di raccontare con questa sua nuova opera (che a mio avviso è tutt’altro che un film minore nella sua straordinaria carriera di regista) è dunque quello in cui – passando dalla giovinezza alla maturità – si impara a guardare le cose con gli occhi degli adulti anche se non si ha ancora sulle spalle il peso di analoghe responsabilità e il massimo delle preoccupazioni che possono turbare l’esistenza sono quelle che riguardano il ritardato arrivo delle mestruazioni della fidanzatina di turno con la quale si è scopato senza preservativo e si teme per una possibile gravidanza che potrebbe portare un comprensibile scompiglio nella propria esistenza togliendole serenità e spensieratezza… Per farlo, per rendere palpabile tutto questo, utilizza prima di tutto la musica e il suo protagonismo davvero centrale, come si è già detto sopra, ma ricostruisce anche meticolosamente il clima psicologico di quel periodo transizionale riservando un occhio ancora più speciale e specifico, all’epoca di riferimento della quale – senza fare una semplice e scontata “operazione nostalgia” fine a se stessa - ci restituisce le tendenze e la temperatura incandescente, l’eterogeneicità linguistica e i movimenti, attraverso una galleria di personaggi realistici e bizzarri tutti perfettamente messi a fuoco (come Finn per esempio che chiacchiera tanto ma non pensa molto al quale vengono affidate battute davvero esilaranti, come quando sostiene che “dietro al mimetismo e indipendentemente dall’ambiente in cui ci si trova, riposa sempre il pensiero che punta alla conservazione della specie, o meglio – come dicono a Buckingham Palace – l’impulso naturale alla passera o anche il biondo Willoughby culturalmente e anagraficamente fuori tempo massimo che impartisce lezioni sulle potenzialità telepatiche e spirituali della marijuana). La pellicola è piena di annotazioni godibilmente divertenti e di piccoli, ma sostanziali particolari di costume studiati nei minimi dettagli con una minuziosità documentata applicata agli accessori e al look (come i baffi alla Freddie Mercury), alle ambientazioni ed ai costumi.
Non è comunque la storia ad essere importante (quella – e si può ben dire - non è neppure tanto originale) ma il modo con cui viene narrata (e messa in scena). Ed è proprio questo che fa la differenza (poiché differenti sono anche gli obiettivi) e rende il tutto qualcosa di più, di meglio e di diverso rispetto alle tante altre pellicole che l’hanno preceduta trattando analoghe tematiche a partire dalla famosa serie televisiva Happy Days.
Linklater costruisce infatti una struttura narrativa molto ben oliata che intende privilegiare la fluidità del racconto (che rinverdisce semmai il clima e le atmosfere magiche di American Graffiti se proprio vogliamo fare un paragone col passato), ed è dunque proprio su quella che punta prioritariamente, non trascurando comunque nemmeno di mantenere la coerenza col suo stile anche se qui può sembrare – ma solo in apparenza - più sottotraccia e meno evidente che in altre sue fatiche).
Ci regala così un’operina garbata e divertente che lievita progressivamente fino a farsi “cinema” (e che cinema!) attraverso i ritmi frenetici e un po’ sopra le righe della sua struttura e nell’accettazione totale delle convenzioni codificate del genere, anche se “rigenerate” in toto. Trova così il suo sviluppo pratico utilizzando un andamento elettrizzante anche se un po’ rapsodico (ma che non si disperde mai in didascaliche divagazioni) in cui è ancora una volta lo scorrere del tempo, la voglia di filmarlo e di “scolpirlo” nel suo scorrere (Francesco Crispino) lo scopo primario e prioritario della sua narrazione per immagini insieme a quello (venato di una buona dose di nostalgia) della fine (inesorabile) della giovinezza.
Non ci sono insomma messaggi particolari da inviare questa volta, anche se il film richiede riflessione e attenzione onde evitare di considerarlo un semplice e banalotto College-Movies (che è poi l’accusa – a mio avviso ingiustificata – che gli è stata lanciata da una parte non solo d ella critica, ma anche del pubblico).
Per me invece Linklater si conferma anche qui come uno dei più interessanti registi americani attualmente in attività capace com’è di disegnare (sue sono anche le sceneggiature) splendide figure piene di vitalità e di adottare soluzioni formali assolutamente convincenti e funzionali che aggiornano al presente la solida classicità che ha reso grande il cinema d’oltre oceano del passato, ma che da un po’ di tempo si è resa invece latitante in molte pellicole del presente.
Tutti vogliono qualcosa è dunque un film davvero toccato dalla grazia che pur nella sua apparente leggerezza disarmante, sembra fatto apposta per ribadire il trasporto emotivo (la fascinazione insomma) che lega indissolubilmente (e in forma assolutamente personale) il cinema del regista alla poetica proustiana della ricerca del tempo perduto. E’ anche però un'appassionante diapositiva colorata dove il ritratto individuale si sovrappone a quello culturale e sociale del periodo di riferimento che sfuma in un finale ellittico e sorridente che si conclude con un coro collettivo e un po’ sgangherato urlato a squarciagola sulle note di Rapper’s Delight (I said a hip hop, / The hippie, the hippie, / To the hip, hip hop, and you don't stop, a rock it / To the bang bang boogie, say, up jump the boogie).
[1] Il riferimento è anche alla famosissima serie televisiva "Cosmos: A Personal Voyage", andata in onda nel 1980 e vista da almeno 500 milioni di persone in 60 paesi diversi che fiancheggiò l’uscita del libro di Sagan a cui si è accennato sopra che influenzò con le sue teorie, molti giovani dell’epoca (scrittore che – per inciso - è stato anche l’autore del romanzo di fantascienza Contact dal quale fu tratto nel 1997 il soggetto per l’omonimo film diretto da Robert Zemeckis con Jodie Foster e Matthew McConaughey).
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