Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Il primo aggettivo che mi viene da associare a questo film è “disturbante”. Iñárritu non è proprio un regista da definirsi delicato, quindi la cosa ci starebbe. Se non che, ciò che mi “disturbava” (e non poco) nella prima mezz’ora/tre quarti di visione (l’esagerazione quasi grottesca, le forzature battagliere, la ridondanza in generale amplificata da un’eco naturalistico che andava profilandosi come un’esibizione di maniera e di stile fine a se stessa) si è lentamente dissolto allorquando ho intuito, prima ancora di poterlo verificare tramite qualche facile ricerca in rete, di che proporzioni smisurate sia stato lo sforzo, umano e tecnologico, nonché naturalmente di budget (ma quest’ultimo non è certo un elemento a favore), operato per realizzare questo film.
Il primo grande “step”, dopo gli sviluppi disturbati della monumentale mattanza iniziale tra pelli rosse, bianche e di bestiame vario, è certamente la scena dell’aggressione di mamma orsa, verso i venti minuti di film. Ora: in molti già vorrebbero riservare a questa scena un posto d’onore nella storia del cinema di qui in avanti. Io personalmente non mi opporrò a tale deliberazione. Caso vuole che mi stessi ripassando negli stessi giorni qualcosa di Herzog ricorrendo alla mia modesta, personale cineteca (dopo la cocente delusione che il crucco regista mi ha rifilato con “Lo and Behold”), e avessi rivisto proprio di fresco “Grizzly Man” dello stesso Herzog. Ecco: combinare la visione di “Grizzly Man” con la scena del povero Peppino Di Caprio (oh, finalmente! un oscar!) nel ruolo di un redivivo Timothy Treadwell di maggior fortuna, potrebbe essere un buon viatico per sedare i cattivi sintomi che (capisco...) possano manifestarsi durante la visione del film di Iñárritu.
Un secondo "step", quello che definitivamente mi ha costretto all’abbandono degli occhi, dei sensi e della ragione, è una breve scena in cui l’eroe è inquadrato dal lontano, lontanissimo, è un puntino nero minuscolo che cammina tra i ghiacci e le montagne: magia di un digitale che Iñárritu usa con un onore e un merito non certo inferiore a quello dei Cameron, o dei Marvel’s Maker, o dei Tolkien Reporter (non a caso questo film ha battuto tutti nelle competizioni importanti per gli “effetti speciali”), lo scenario ai margini viene zummato appena di pochi metri, mentre la parte centrale dell’inquadratura precipita, nello stesso spazio tempo di fotogrammi, fino a un passo dal personaggio, con effetto mirabile.
Ecco: “The Revenant” va preso come fosse un regalo di un piccolo mago. Così facendo, ferme restando al loro giusto posto le ragioni “etiche”, i buoni sentimenti paterno/filiali e i cattivi, gli scontati sentimenti di vendetta che da quelle ragioni non sanno prescindere (causa la misera natura umana, non troppo migliore di quella dell’orso, quasi suo pari nella piramide della catena biologico/alimentare), le giuste perplessità, che personalmente comprendo, di chi vuole valutare questo film come ”spocchioso” e troppo sopra le righe, può arrivare ad essere un film mirabile, quasi un capolavoro.
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