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Revenant - Redivivo

Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film

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La recensione su Revenant - Redivivo

di Tom_96
9 stelle

"The revenant" è un'opera unica e travolgente, al di la dei limiti di scrittura è uno spettacolo sublime, dove la finzione diventa reale e il cinema esperienza

La vendetta è nelle mani di Inarritu. Rispondere alle critiche mosse al pluripremiato “Birdman” era un'impresa tutt'altro che scontata; a prescindere dall'indiscutibile talento tecnico, il meraviglioso (finto) piano sequenza secondo molti altro non era se non un pavoneggiarsi ingiustificato, la cattiveria e la genialità legata alle vicende di Riggan rischiavano di perdere di senso proprio a causa di una impostazione che, per quanto indubbiamente ammirevole, cristallizzava l'attenzione unicamente su di se. Sull'opera successiva del regista messicano sarebbe gravata un'aspettativa gigantesca, derivante proprio da un virtuosismo e da una sfrontatezza che con “Birdman” avevano raggiunto livelli già di per se altissimi. Ma Inarritu non si è fermato e la sua vendetta l'ha avuta con “The revenant”, ancora più audace e prepotente, spregiudicato e senza freni, un'operazione produttiva quasi leggendaria che ha dato alla luce un film tanto ambizioso quanto grandioso. Siamo nel 1823: Hugh Glass è un cacciatore di pelli che, durante una spedizione con la compagnia per cui lavora, viene aggredito in maniera brutale da una femmina di grizzly. Dilaniato e martoriato nel corpo ma ancora vivo, Glass assiste impotente all'assassinio del figlio da parte del feroce Fitzgerald, trapper senza cuore unicamente interessato al denaro, che dopo il delitto fugge abbandonando il redivivo del titolo in una fossa improvvisata. Il desiderio di vendetta spingerà Glass a percorrere le lande innevate del Nord America per trovare e uccidere Fitzgerald. “The revenant” è un'opera alla quale ci si può avvicinare in due modi: fermandosi ai preziosismi tecnici, vedendo così nel titanismo della messa in scena una sorta di delirio supermosistico, oppure facendosi travolgere dalla sua forza evocativa dirompente. Effettivamente non c'è niente che renda lo sviluppo narrativo di questo filmdiverso da un qualsiasi revenge movie degli ultimi anni, eppure stavolta Inarritu sceglie di dar voce all'ambientazione prima che ai personaggi: pochissimi dialoghi, soprattutto nella parte centrale, e tantissimi silenzi che hanno il suono del vento, della pioggia e le sfumature cromatiche di Lubezki, alla sua terza meraviglia come direttore della fotografia dopo “Gravitiy” e “Birdman”, che colora l'inquadratura di luce naturale senza essere per questo documentaristico o didascalico. Al contrario l'atmosfera è avvolgente in maniera quasi sublime, crea squarci lirici in cui i personaggi sono messi a confronto con una natura insieme meravigliosa e maligna. Maligna soprattutto per il protagonista, a cui da voce e corpo un mai così silenzioso Leo DiCaprio il quale diventa espressione cristologica del dolore in tutte le sue forme più estreme; la sofferenza ha voce propria, quella di un divo di Hollywood spogliato di charme e belle parole e accompagnato solo dai propri patimenti, declinazioni terrificanti di un paradigma che è quello dell'afflizione ma non della rassegnazione. Un lavoro di immedesimazione impressionante, frutto di un calvario vissuto sulla propria pelle dallo stesso DiCaprio e punto di arrivo di un percorso artistico sempre in crescendo che non ha bisogno di Oscar per essere suggellato. Nonostante l'intensità recitativa del suo interprete, Glass rimane un personaggio più epico che etico, caratterizzato in maniera molto superficiale per via di una scrittura che trova i limiti più evidenti nell'impostazione, fedele in modo scolastico agli stilemi del classico film di vendetta con l'anti-eroe tutto d'un pezzo. Si tenta di dare un approfondimento psicologico al protagonista tramite visioni oniriche che però, per quanto vicine alla profondità di Malick, non sono mai del tutto convincenti, per quanto tremendamente suggestive. Interessante invece la costruzione dei (pochi) personaggi secondari, come il giovane Bridger e il capitano Henry, e soprattutto del villain: Tom Hardy, fra i volti più caratteristici della nuova leva, riesce a rendere affascinante e magnetico un character difficilmente empatico come Fitzgerald, complici una caratterizzazione bilanciata e alcuni monologhi davvero esplicativi. Rimane il problema della fragilità della storyline, ma Inarritu gioca d'astuzia subordinando l'impianto narrativo a quello tecnico, in modo tale che il racconto dell'Odissea di Glass non è un pretesto per la divinizzazione apologetica del regista, quanto piuttosto una metafora della tensione naturale tra il metafisico e l'umano attraverso il conflitto tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. “The revenant” è più di una operazione vanagloriosa, è più di una produzione estrema durata mesi, è più di una fatica che vuole solo far parlare di se, è più di un bel piano sequenza o di un tecnicismo impeccabile. E' facile cadere nel semplicismo e nella sufficienza, ma “The revenant” è molto più di questo. Il regista ha voluto creare un contesto all'interno del quale ci si potesse sentire testimoni attivi della potenza travolgente dell'ambientazione; senza ricorrere all'interazione dialogica tra personaggio e pubblico ha generato una frattura nella quarta parete dalle cui crepe lo spettatore vive gli stessi patimenti di Glass. E questo è cinema, vibrante e pulsante, capace di emozionare senza bisogno di parole, capace di stupire senza green screeni, capace di sorprendere senza momenti da standing ovation. Ma è anche una esperienza cinematografica di rara immersività, un'epopea tra le montagne in cui si soffre, si piange, si vede la morte in faccia e la si combatte insieme al protagonista. E' metacinematografico senza saperlo, è cinema votato all'onestà della rappresentazione al punto tale da sacrificare sceneggiatura e personaggi per accoglierci nella sua potenza scenica dirompente. E', insomma,cinema. Uno spettacolo davvero indimenticabile

 

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