Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Il wilderness drama è per definizione la narrazione di uno scontro con la natura selvaggia in tutte le sue rappresentazioni. Territori ostili, furia degli elementi naturali, animali feroci, sopravvivenza, etc. In parte basato sull’ottimo romanzo di Michael Punke, scrittore wyonmingite, analista e consulente politico e ambasciatore Usa a Ginevra, Revenant, diretto da Alejandro González Iñárritu, uno dei pochi veri autori oggi in circolazione, riunisce tutti i caratteri principali di un wilderness drama.
Nell’adattamento cinematografico fatto in coppia con Mark L. Smith, il regista si è però preso non poche licenze narrative e si è allontanato parecchio dalla storia originale. Si sa, il passaggio dal letterario al filmico ha i suoi “lost in translation” e ha ovviamente delle esigenze peculiari che la narrazione letteraria non ha. Il racconto per immagini, ovvero il cinema, è sintesi, e nell’operare questa sintesi fa delle scelte. Scelte narrative innanzitutto: cosa raccontare e cosa no. Successivamente fa delle scelte stilistiche: come raccontarlo. Se da un lato, il film diretto da Iñárritu ha il pregio di adottare tecniche cinematografiche che lo allontanano dalla tendenza invasiva del digitale e lo avvicinano alla vecchia scuola analogica – tendenza tra l’altro rintracciabile in altri importanti titoli chiave del 2015 come Mad Max: Fury Road, Spectre e Star Wars: Il risveglio della forza – dall’altro tende a depistare il classico racconto avventuroso e lo riutilizza per un’immersione totale e sensibile in un nuovo concetto di esperienza cinematografica.
La combinazione tra nuove e più sofisticate tecnologie e le tecniche classiche di ripresa, così come il minor uso possibile del digitale a favore del profilmico e di tutti gli elementi reali e concreti della produzione cinematografica, elevano Revenant a film simbolo di una rivoluzione tanto produttiva come ricettiva. Non si può quindi non vedere in Revenant un film tecnicamente all’avanguardia che si dota anche di un cast artistico notevole il cui lavoro sul personaggio è di finissima professionalità: Leonardo DiCaprio e Tom Hardy fanno a gara di bravura e immedesimazione, tanto da non saper decidere chi ha dato vita al miglior personaggio. Lo Hugh Glass di DiCaprio è titanico e tragico nella sua sfida agli elementi naturali e nella sua condizione esistenziale di padre vendicativo, di uomo distrutto e smembrato che cerca più vendetta che giustizia. Tom Hardy, con il suo Fitzgerald, tratteggia l’avidità dell’uomo neocapitalista che ha come unico orizzonte l’accumulo di ricchezza, il tornaconto personale, e scolpisce sul suo personaggio i segni fisici di tale aggressività e animalità antropomorfa, parallelizzando le leggi spietate della foresta con quelle del consorzio umano.
Questi elementi artistici, unitamente allo sguardo contemporaneo di un regista tutto teso fin dai suoi esordi al racconto del reale attraverso l’espressività del reale stesso, e accompagnati da una fotografia superba che trasporta la naturalezza della wilderness sul grande schermo con spiazzante conservazione di luci, colori e forme naturali, trovano nelle tecniche di ripresa utilizzate dalla regia un linguaggio ai limiti dell’efficacia. Le impressionanti riprese stroboscopiche, quasi tutte dei piccoli piani sequenza necessari per poter conservare la stessa luce e poter girare più scene senza sprecare tempo prezioso, per le quali si sono utilizzati tre metodi precisi, ossia gru, steadicam e riprese manuali, trascinano con forza lo spettatore all’interno di un’esperienza pseudo-sensibile a tratti invasiva, per lo più particolarmente emotiva ed empatica. Purtroppo, queste tecniche, impressionanti e sbalorditive, non aiutano a rendere efficace ciò che più conta a livello cinematografico: il puro racconto per immagini.
Gli errori che Iñárritu commette nel suo generoso slancio innovativo sono diversi. Il primo è la tecnica cinematografica prima descritta. Si applaude allo sforzo inumano della lavorazione e alla disponibilità di attori e cast tecnico a lavorare in certe condizioni, ma questo virtuoso e fluido giro di giostra fa della liquidità un codice linguistico inefficace al racconto per immagini, soprattutto per un racconto il cui modello di riferimento, il western, è il genere con il massimo di realismo e tellurismo. Proprio in questo consiste il secondo errore imputabile al regista, ovvero infarcire la storia di Hugh Glass con una fenomenologia più vicina alla mirabilia che al realistico-avventuroso, tant’è che non solo il film taglia e manomette buona parte del romanzo di partenza, ma del tono naturalistico e dettagliato di Michael Punke quasi non resta più nulla. Il regista preferisce, in questi soli contesti, un uso abbondante del digitale – le frecce degli indiani, l’attacco del grizzly, i bisonti e i lupi, il salto nel vuoto di Glass e cavallo - invece di arrischiarsi in un’adesione più vera e terrica con l’elemento naturale, iperbolizzando i motivi narrativi più come elementi di fantasticherie che di pura avventura. La coincidenza tra il minuzioso realismo dei dettagli, ovvero il fattore massimo di realtà, verità e fedeltà storica, e la resa iperreale di tale realtà, più ispirata ai codici visivi e narrativi dei cinecomics che del western tradizionale, avvicina Revenant al racconto fantastico, a cui fa eco l’eccessiva impostazione spirituale del protagonista che non corrisponde all’approccio e pragmatico verso la stessa dato da Punke nel suo romanzo.
Questo esempio di western o di wilderness drama del XXI secolo, nonostante le sue caratteristiche avventurose, compie un passo più in là, un passo più spregiudicato di quello di Tarantino, e utilizza il western solo come impalcatura per un racconto altro, pur sempre interessante e pieno di sottotesti, esistenziali come politici, sociali e razziali – Iñárritu è messicano, e non va dimenticato – ma non strutturalmente connesso con il suo genere di riferimento.
Il romanzo di Michael Punke ci porta con vigore all’interno di un mondo rude e pericoloso, duro e selvaggio, con una potenza espressiva non indifferente. All’autore bastano poche parole, molte delle quali gergali o culturospecifiche, per restituire immediatamente un’immagine o un personaggio, un ambiente o un’azione. Il modo in cui il personaggio di Fitzgerald ci viene presentato per la prima volta nel romanzo ha una potenza figurativa tale che conferma come nel film ci si sia invece allontanati troppo da questo vivido linguaggio per immagini, classico e immortale, per inseguire un cambiamento tecnico-linguistico riuscito solo per metà.
Se la sceneggiatura fosse restata la più aderente possibile alle pagine di Punke e quindi alla realtà storica dei fatti, il film sarebbe stato più strepitoso e strabiliante di quello che appare agli occhi del pubblico nonostante la magnificenza dello sguardo registico e della scelta iperbolica del linguaggio.
PS: Non esiste solo The Revenant di Michael Punke, ma anche Lord Grizzly di Frederick Manfred (1954) e il celebre Uomo bianco, va’ col tuo dio! di Richard Serafian (1971).
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