Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Il gran regista messicano filma, con una perizia impressionante e da brivido, una caccia sfiancante,una fuga dagli indiani che decima e rende vane tante fatiche, un attacco improvviso da parte della natura offesa e depredata; ma soprattutto la vendetta che fa seguito al più crudele dei comportamenti, che vede l'uomo al centro di ogni infamia.
OSCAR 2016 COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA A LEONARDO DI CAPRIO
Nell'anno del western innevato e raggelato dalle intemperie di una natura davvero poco affabile, se non decisamente ostile, Revenant costituisce un ottimo contraltare alla altrettanto eccelsa prova tarantiniana di The Hateful Eight: due estremi di gran valore, accomunati solamente da una medesima o comunque molto affine unità di paesaggio.
Ovvero: tutto ricondotto in interni, tra dialoghi logorroici ed arguti, che da tempo amiamo alla follia e ci aspettiamo incondizionatamente quest'ultimo, ovvero The Hateful Eight, imbastardito tra l'altro sul più bello da una clamorosa oltre che azzeccata svolta horror, alle riprese verticali e perennemente in esterni di Revenant, in cui l'azione ruba spazio al dialogo, scarno e surclassato dal verso gutturale del dolore, fisico naturalmente, ma anche morale, lasciando gli esseri viventi che riescono a sopravvivere, allo stato primitivo di belve, rincorse da chi vuole eliminarle e a loro volta all'inseguimento di chi le ha rese tali.
Ma cominciamo dall'inizio.
Visti dall'alto: un mondo greve, affamato, popolato da belve, più che di uomini, disposte a tutto pur di sopravvivere a scapito di altre genti e razze; scendendo più in basso: le foreste del Nord Dakota, in prossimità ove si forma il fiume Missouri, sono il teatro naturale e potente della vicenda; giunti al suolo, dopo che la panoramica completa di Inarritu, straordinaria, emozionante, esasperata e resa vibrante dal grande schermo, imprescindibile per questo film, ci ha fatto letteralmente discendere dai cieli cupi e avvolti da una coltre nevosa gelida e sferzante, scomposta solo a tratti dai rami frondosi di conifere secolari alte come torri, ecco che incrociamo la guida (o trapper) Hugh Glass, mentre si prende carico di guidare un gruppo di cacciatori di pelli, impegnati a fuggire da un attacco ordito dagli indiani Ree, che, esasperati dall'invadenza dell'uomo bianco, che depreda e impoverisce indiscriminatamente le loro terre, ricorrono a tutta la loro tecnica guerrafondaia pur di difendersi e far cessare le razzie. Trenta uomini morti, dodici i superstiti, tra cui il figlio della nostra guida, di razza meticcia, frutto di un amore con una indiana Pawnee, amatissima ma uccisa tempo prima dai bianchi invadenti e letali.
Scampata al massacro, abbandonata l'imbarcazione per non venire attaccata lungo il fiume, la carovana procede nel bosco, ma Glass, in avamposto di perlustrazione, viene attaccato da un grizzly enorme, azzannato in vari punti e ferito gravemente. Il comandante della spedizione, uomo onesto e riconoscente, si ostina a portarlo con sé, fino a che la strada si fa così impervia da costringere il gruppo a lasciarlo assieme al figlio, ad un giovane cacciatore, e all'ostile e greve Fitzgerald, che agisce solo per lucro senza nemmeno prendersi cura di celarne il subdolo fine. Con gli indiani alle calcagna, quest'ultimo gira con malizia la situazione in modo che il ferito, con la gola tagliata ed impossibilitato a parlare, acconsenta a farsi sacrificare per salvare gli altri tre, tra cui il figlio: ma proprio quest'ultimo se ne accorge e, nel tentare di fermare il criminale, viene ferito a morte sotto gli occhi devastati dall'odio (oltre che dal dolore, fisico e morale) del padre. Ci sarà solo posto per la vendetta: un sentimento che è l'unico supporto che permette al nostro personaggio di sopravvivere in quella landa di gelo, ferito e con il cuore a pezzi per il lutto devastante.
Revenant parla infatti solo di vendetta: un sentimento che si esaspera e che si avvita su se stesso come la macchina da presa di Inarritu, sensazionale, mobile oltre ogni possibilità, aperta ad innalzarsi verso cieli mai così ripidi e aperti, per poi precipitare giù nell'inferno del rancore e della violenza; il trionfo della vendetta dicevamo, che come un giavellotto passa di essere in essere, dagli indiani esasperati ad un padre privato del suo unico affetto, per il tramite di un'orsa intenta con tutta la sua potenza fisica spaventosa a difendere la propria prole (la scena dell'attacco è memorabile, incredibile a dirsi e a vedersi, realistica e scioccante come forse non si era mai visto), e quindi belva certo, ma anche e prima di tutto madre premurosa, così come lo è Glass nei confronti di quel suo figlio mite e saggio, portatogli via dalla cattiveria istintiva e insensata insita nella razza umana, pensante e raziocinante, e dunque proprio per questo più propensa a usare la malizia e l'inganno per avere la meglio sugli altri, uomini o belve che siano.
Inarritu lascia, almeno per il momento, i palcoscenici intellettuali e psicotici, esasperati e schizofrenici degli ambienti culturali della metropoli, ambiziosa e affamata di successo, per tornare alle origini, della civiltà certamente, ma anche dell'arrivismo umano, che già in quei frangenti primitivi - o soprattutto in quei drammatici contesti - rende gli individui delle belve ciniche le quali, dotate di raziocinio e di malizia, rese più acute ed affinate dalla necessità impellente di sopravvivenza, riescono a far pianificare strategie che tirano fuori le bassezze più luride e infami dell'uomo: quelle che permettono al più scaltro e senza scrupoli di avere la meglio sugli altri, magari più onesti e dunque più vulnerabili.
Una tempesta di sentimenti primordiali che si trasforma in una caccia all'uomo serrata e spettacolare, resa unica dalla potenza di sguardo di un regista che riesce a sorvolare sull'azione, mostrandocela sotto ogni direzione, dimensione e angolatura, sfidando, o dandoci l'idea di sfidare le leggi basilari della gravità, portando lo sguardo dello spettatore sempre oltre il limite umanamente consentito. E stando appiccicato ai personaggi, dandoci l'impressione di vivere nel protagonista: la scena dell'attacco del grizzly è straoridinaria, incalzante, infinita: ci lascia addosso un senso quasi fisico del dolore, quello lancinante di un uomo dilaniato dagli artigli e dalle fauci di un orso inferocito, tutto proteso a difendere la propria prole, e dunque quasi impossibile da fermare nella sua onesta e necessaria azione difensiva decisa e voluta dall'istinto, dalla natura, dunque da un ordine superiore che gli impone di agire con tutto se stesso.
Basilare per la riuscita di questo viaggio emozionate e concitato, l'intervento di un direttore della fotografia eccelso e straordinario come Emmanuel Lubezki, messicano pure lui, collaboratore fisso dell'altro conterraneo Cuaron, ma pure di altri cineasti del calibro di Malick e Burton.
Leonardo Di Caprio, concentratissimo, torvo, devastato, e davvero emotivamente catturato dal suo personaggio, è bravo come e ancor più di quando ci fa emozionare con le sue doti espressive e la sua capacità di immedesimarsi nel personaggio: l'Oscar tanto agognato non dovrebbe scappargli questa volta, a meno che non ci sia una congiura che trama, non si sa bene a quale fine, contro di lui.
Tom Hardy è un cattivo disgustoso ed eccellente, ma questo lo sapevamo già da tempo (dai tempi dello straordinario Bronson, come minimo).
Revenant è forse il film più lineare e fisico di Inarritiìu, e forse proprio per questo la prova del nove che conferma l'abilità non comune ed il talento esasperato, ma irrinunciabile, di un regista finalmente impegnato, dopo tante costruzioni cerebrali e caratteriali, in scene d'azione e suspence proprie di un blockbuster, che tuttavia non gli impediscono di coniugare la fisicità delle situazioni, con l'interiorità di un riscatto che è certo una vendetta, ma anche una rivendicazione necessaria laddove la cattiveria ha reso l'uomo una belva che può solo essere eliminata, e non riabilitata.
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