Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Inarritu occupa un immaginario già strapieno di sé, impone allo spettatore un reset completo di tutti i 120 anni di storia audio-visiva ed erige in sua vece non altro che una tabula rasa innalzando al posto della meraviglia il vuoto spinto di una spoglia imago stantia ad emblema di un cinema che non-è. Lubezki alla MdP è l'unico ad uscirne vivo.
Emmanuel Lubezki è un dio, e Alejandro González Iñárritu è uno dei suoi profeti minori.
Grevity, ovvero ( il Conte di Monte...Criiistooo! Un orso! ) : Iñárritu non sa danzare.
E, a proposito di volteggi [ della MdP e della troupe, dal Canada profondo e pacifico ( Alberta e British Columbia ) alla Terra del Fuoco nella Patagonia argentina, inseguendo un eterno inverno ], empatia, giroscopi, piani sequenza, grandangolari ( reygadasiani, verrebbe da dire, rimanendo in territorio messicano ) a focale fissa
--{ che, oltre a creare generalmente una maggiore profondità di campo messo a fuoco abbastanza nitidamente [ si pensi, per contro ( giusto per citare un film che in comune con "the Revenant" ha solo la concomitanza dell'uscita nelle sale ), baricentrando tra forma e sostanza e trovando un punto di Lagrange tra stile e contenuto, all'opera prima (lungometraggio) di László Nemes, "Saul Fia", dove e quando è il ''modo'' in cui è messa in scena la storia ad essere "significante" e a conferire ''senso e significato'' all'opera ], tendono anche a ingigantire oltremisura le proporzioni de(gl)i s-oggetti in primo piano : quasi una metafora del film, insomma : la tecnologia interviene là dove deficita [sic] e non arriva il lapis : il dispositivo-MdP è continuamente e persistentemente rivelato e messo in primo piano, paradossalmente è l'obbiettivo stesso che si pone...di fronte all'obbiettivo : schizzi di fango e spruzzi di sangue lo colpiscono e lo manifestano, cantandone la presenza ( stonando fuori tempo ) }--,
eterni ritorni e mamme orsa ( e maschi alpha ) : no, Iñárritu non è Kevin Costner che allarga le braccia e sfida il destino galoppando innanzi alle fila nemiche in “Dance with Wolves”, non è Michael Mann in bilico sullo strapiombo a precipizio tra la retorica e l'estatica di “the Last of the Mohicans”, non è Werner Herzog che recupera dalla carneficina l'incontro con una volpe artica in “Grizzly Man” ( tralasciamo per carità di patria/matria cinefila ogni accostamento improprio o paragone spurio col fulcro narrativo e morale del capolavoro herzoghiano : l'audio registrazione della videocamera rimasta accesa e ''recordante'' ad obbiettivo coperto mentre la più pura manifestazione della fiera natura indifferente e "crudele" banchetta che il regista, ascoltatala, fa sentire non allo spettatore ma solo all'amica di Timothy Treadwell ), non è Terrence Malick che avvista le prime navi straniere sulla costa atlantica in “the New World”, non è Alfonso Cuarón che gira – assieme allo Jerzy Skolimowski di “Essential Killing” – la matrice da cui “the Revenant” deriva e di cui ne è lo stampo fedele : “Gravity”, e ancor prima la scena all'inteno/esterno dell'abitacolo dell'automobile sotto attacco in “Children of Men”.
E non è certo Ethan Edwards che, dati il motore-ciak-azione di John Ford, spara a quanti più bisonti può per non lasciarne nemmeno uno che non sia putrefatto agli amerindi ( tra l'altro, le brevi scene nella neve di “the Searchers” sono più potenti, selvagge e performanti dell'intera pellicola ingolfata, pesante e tronfia di Iñárritu, che certo pur contiene accenni lirici e poetici notevoli : veri e propri quadri...lubezkiani ). Il paragone immediato si genera col modesto “BackCountry” : l'attacco dell'orso [ in entrambi i casi/film in posa sodomitica ( con o senza strap-on ) sopra alla preda, ma semplicemente perché è così che accade, spesso e volentieri, quando accade : ovvio, è -quasi- tutto nell'occhio umano di chi guarda ] e la scoperta di un paesaggio inaspettato dopo una breve salita : l'aggressione in CGI all'Homo s. sapiens da parte dell'urside di “the Revenant” [ Ursus arctos ( orso bruno ) horribilis ( grizzly ) ] ha la ''stessa'' forza di quella prodotta dalla commistione che si viene a creare utilizzando l'artigianale ( e a tratti ridicolmente inserita nell'azione ) finta testa ursina [ Ursus americanus sp. ( orso nero o baribal, sp. ) ], il pregevole lavoro di make-up gore sulla vittima e il fuori campo ( questo si, invece, ottimamente gestito ) nel film di Adam MacDonald, mentre la scena di caccia del branco di lupi verso la mandria di bisonti ha una resa eccezionale che scavalca senza sforzo la sorpesa dell'essersi persi nel film con Missy Peregrym. Altro parallelo plantigrado, ma qui ovviamente tutto a favore di “the Revenant”, è con la story-line di Elam, il Bear Man di “Hell on Wheels”.
Iñárritu non sa danzare, si diceva : l'étoile Lubezki è perfetta ( e ciò vale anche per il capo architetto scenografico Jack Fisk , altro malickiano d.o.c. ), difetta invece il Boris Lermontov a capo della compagnia che l'impresa non la sa condurre, e difetta la sua coreografia composta da regia+scrittura [ nella quale persino le musiche di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto ( e Bryce Dessner ) ''scompaiono'', e in questo caso non è un pregio : posso essere abbastanza convinto del fatto che l'OST album funzioni molto meglio se preso a sé ], dove ogni morto, così come ogni albero, cade al posto giusto, e non importa ad alcuno il rumore ( fracasso ovattato o urla disumane ) che fa. L'esatt'opposto, insomma, di quel che accade(va) in "Dead Man" di Jim Jarmusch, un film ulcerosamente sincero, là dove l'opera di Inarritu rimane solo un travaso di belluria.
Iñárritu s'innalza su di un immaginario pre-esistente, lo riproduce, ce lo racconta di nuovo, si fa scudo di questo retroterra narrativo-cinematografico e lo sfrutta per tentare di sconvolgerci e catapultarci dentro ad una Storia che non c'è : non c'è perché mancano i personaggi
-{ Skolimowski andava ben oltre in “Essential Killing” ( living-surviving) : là dove Iñárritu c'inonda di flash-back flou [ lo stesso errore/compromesso commesso da John Hillcoat nel tentativo di dare al “the Road” di Cormac McCarthy una vita ''altra'' da ciò che è : un videogioco (arte) di sopravvivenza, e un capolavoro ],il regista polacco e il suo attore-performer Vincent Gallo invece raschiavano via dalla pelle del loro protagonista ogni contatto col proprio retroterra }-
e nulla di nuovo ed originale ( non che sia una condizione imprescindibile per fare arte e/o intrattenimento, anzi ) c'è, in questo film, che per lunghi tratti risulta profondamente ridicolo, straripante del suo stesso pathos di scarto, e a cui non si crede ( e non si cede ) nemmeno per un attimo. In altri momenti, invece, ''per forza di cose'', emoziona ( la sferzante pioggia orizzontale di frecce dell'attacco indigeno iniziale, in medias res, e poi : l'attacco dell'orso, il salto nel vuoto con appaloosa, l'arrampicata con scena di caccia animale, il duello corpo a corpo finale ) : la CGI ben utilizzata -[ per esempio c'è da chiedersi se i lens flare presenti in alcune scene derivino da un'accoppiata artigianale alla vecchia maniera composta da grandangolo+fisheye ( raddoppio di focale fissa, raddoppio di lenti ) oppure siano dovuti a dei ritocchi speciali in post produzione cercati, voluti e ri-creati all'uopo : un vero e proprio cortocircuito di iperrealtà plasmata-falsificata/riprodotta-reinventata : una ur-immagine (modernissima/contemporanea) infedele : come s'è già detto in precedenza questa è un'ostentazione del dispositivo fine a sé stessa, un ornamento che il regista non sa indossare ]-, immersa in un paesaggio-set del tutto naturale e selvaggio, Lubezki-Fisk, lo scalpo risistemato alla bell'e meglio di Tom Hardy, lo sguardo diretto in cinepresa ( che ci tira direttamente in ballo...ma è un po' tardi ) di Leonardo DiCaprio : ottime prove ( ma ''nella media'' per un film d'Autore di questo genere ) quelle dei due attori protagonisti, diretti con poderosa spenta professionalità, e altrettanto – contestualizzandone e facendo le giuste proporzioni in merito all'energia spesa – quella dei ''comprimari''. Ma sono solo ombre cinesi quelle disegnate da Iñárritu sfruttando le braci del fuoco dell'arte narrativa lasciate accese dai precedenti occupanti la caverna-set-sala di montaggio-teatro cinematografico.
Se esiste un bravo regista più pesante, pregno, ingolfato e bolso di Iñárritu quello è Nolan ( e Aronofsky ) : il loro è un Cinema-Sorrentino ( inteso come il buon regista e non come lo splendido frutto peninsular-promontoriale della tettonica a zolle-placche campana ). E "the Revenant", in paricolare, è un monolite indefessamente ripiegato su sé stesso. Che assorbe tutto e non riflette (su) alcunché. Un monolite inerme-inerte, composto di una materia grezza, non trattata. Inossidabile, insondabile ( perché fin troppo sottile, traslucida ). Inscalfibile, innaturale [ non parlo certo della Sospensione dell'Incredulità : che s'ingeneri o meno ai fini di questo discorso non conta, e arrivo a dire che questo aspetto è quello che mi ha disturbato di meno : la setticemia, i numerosi e protratti principi d'assideramento, le emorragie dissanguanti, e la stessa immortalità del protagonista cadono in secondo piano di fronte ad un fattore inescludibile ed ineludibile che di per sé riesce ad infiltrarsi ed attecchire sulla nostra buona disposizione a credere, ovverossia che quella di Hugh Glass è una storia altamente romanzata ma sostanzialmente vera, che Iñárritu racconta memore del John Ford di "The Man Who Shot Liberty Valance" : "This is the West : when the Legend becomes Fact, Print the Legend" ]. Indeformabile, non conformabile. Rimane inespressa. Compressa, depressa, repressa. Frederick Sommer diceva, parlando della fotografia, che "la vita non è la realtà : siamo noi che infondiamo vita nelle pietre e nei ciottoli". Ecco, qui non c'è vita : nemmeno negli occhi di chi ti guarda guardarlo morire, sopravvivere, esaurire la vendetta.
Mi spiace doverlo scrivere – però non ne sono affatto sorpreso –, ma “the Revenant” – sceneggiato a 4 mani dallo stesso autore di "Amores Perros", "21 Grams", "Babel", "Biutiful" e "BirdMan" con Mark L. Smith ( non a caso, quest'ultimo, proveniente da 3 horror, pur e per l'appunto molto eterogenei tra loro : "Vacancy", "the Hole" - forse il ''peggior'' Joe Dante di sempre - e "Martyrs" ) partendo dal romanzo ( ispirato a fatti realmente accaduti ) di Michael Punke del 2002, una non-fiction novel...drammatizzata – assomiglia più a "the Gladiator" che ad "Essential Killing" : non basta un Lubezki che oramai gira solo un film all'anno ( e per un direttore della fotografia vuol dire essere un Autore ) a spremere da Iñárritu il Racconto : “the Revenant” è un film ridleyscottiano ( ''bello'', a tratti appassionante ed avvincente, ma tronfio e gonfio e percolante senso ), e purtroppo nulla a che vedere con “the Duellists” e molto con "Exodus : Gods and Kings" ( e con “Noah” ).
A Malick basta un intercedere della MdP per creare ''poesia'', a Skolimowski una mangiatoia per cervi ( e Vincent Gallo che saluta Emmanuelle Seigner come Redmond Barry salutava la contadina tedesca ), a Cuarón il cortocircuito esiziale e rigenerante dell'utilizzare due Divi che sono Attori invece di due attori che sono performer.
Aridatece sandrina e georgino nostri ( almeno il rientro in abitacolo di Clooney era un sogno di Bullock, qui è ''tutto vero'' ).
Iñárritu non rinuncia alle pastoie cristian(ich)e e là dove Tarantino col suo "the Hateful Eight" ( ch'è ambientato ¾ di secolo dopo ) utilizza il Cristo come residu(at)o di un mondo in fieri, esterno a qualsiasi valore umano che non sia antropologico, il regista messicano lo inserisce nel costrutto onirico del protagonista dipingendone sfumati i contorni tanto da renderlo ambiguo [ il tutto è legato alla religiosità della moglie del protagonista, ponte tra la colonizzatrice cristianità occupante ( cattolica, ortodossa, protestante ) e il pagano politeismo indigeno ] e parte integrante di quel becero Destino Manifesto che sottotraccia riaffiora nella retorica furba del pre-finale ( gli ultimi frame invece sono abbastanza potenti con il loro Eye Contact pur forzato ) in cui si lascia la vendetta - o meglio il Colpo di Grazia, ché il più era già stato fatto, portato a termine, compiuto e intrapreso - a Dio.
Quant'è più onesto il Mel Gibson di the Passion/Apocalypto ( con altrettanta pesantezza ma più grezza e con più grip e quindi più facilmente trasportabile ), allora ? No, non lo è, era per dire.
“ La cultura è come un testo che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui appartiene di diritto. ” - Clifford Geertz
L'unico momento realmente ( non che sia una necessità : ma allora ci si chiede cosa diamine davvero volesse essere questo film ) ma involontariamente etnografico dell'intero film d'avventura ( che non rilascia empatia, e quindi disinnesca l'avventura stessa ) ambientato nei territori del North Dakota, là dove nasce il Missouri, nel 1823, risiede in quell'ammiccamento che l'amerinda di etnia Ree ( o Arikara. Mentre i Pawnee sono più pacifici, e i Sioux battagliano più a nord : ma intanto, sono tutti uguali, no? ) riserva all'eroe : un tic? Un autentico segnale-gesto d'intesa rilasciato attraverso un codice infra-culturale condiviso dialogicamente o ritrovatosi e riconosciutosi innato? Un bruscolino nei miei occhi? Un bruscolino-fotone che si sdoppia e colpisce entrambe le cornee? Una cosa che vedo solo io? Un granello di cultura condivisa in un campo-controcampo.
Ora sarebbe doveroso aprire un intero capitolo della grande branca scientifica che porta il nome di etnografia, ma se non ne aveva voglia Inarritu, il suo film certo non mi spinge ad indagare né in quella né in alcun'altra direzione. Bisognerebbe interpretare un avvenimento che non si sa quanto esplicito esso sia, fatto salvo il fatto che Hugh Glass ( qui di seguito un buon riassunto-ritratto della sua storia e della sua vita, tratto da un sito ''amatoriale'', FarWest.it ) è stato lasciato vivere ( senza essere aiutato : non è stato (non) aiutato a non morire ).
O magari questa sarebbe, più semplicemente, un'ottima occasione per (ri)vedersi "Man in the Wilderness" ( la cui scena dell'attacco ursino è per forza di cose anni luce distante dalla potente resa realistica di "the Revenant", e in questo ricorda più, in parte, quella del già citato "BackCountry" ), ''primevo'' film del 1971 di Richard C. Sarafian con Richard Harris e John Huston.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Addenda iconografica.
1. il Corpo Umano.
Matthias Grünewald - Altare di Issenheim - 1512-1516 ( prima faccia : tavola della crocifissione )
Quentin Tarantino - the Hateful Eight
Samuel Fuller - the Big Red One
Alejandro González Iñárritu - the Revenant
Alejandro González Iñárritu - the Revenant
2. il Corpo Animale ( belly sleeping bag ).
Irvin Kershner - the Empire Strikes Back ( Tauntaun )
Alejandro González Iñárritu - the Revenant ( Appaloosa )
3. Blaaah.
Quentin Tarantino - the Hateful Eight
Alejandro González Iñárritu - the Revenant
* * * ¼ (½) - 6½ (7)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta