Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Un capolavoro, che ha avuto meno riconoscimenti di quanti ne meritasse.
Uno straordinario viaggio a picco nell’inferno della condizione esistenziale degli uomini, soprattutto di coloro che sono a contatto diretto con le condizioni estreme che la natura può imporre (per i nativi) oppure di chi ha scelto di adattarvisi, sperando di non morire, fidando su fortune e su proprie forze, come gli occidentali lì raffigurati. Questi sono mossi esclusivamente dall’avidità e in gran parte dall’immoralità.
La lotta per la sopravvivenza è dipinta in modo mirabile. Inarritù dirige alla perfezione qualcosa di cui ha il merito, anche, di aver scritto con altri una sceneggiatura tratta in parte dal romanzo di Punke, che è una biografia di un personaggio leggendario, realmente vissuto: vi ha aggiunto di suo qualcosa solo per condire il film (lungo 2 ore mezza, ma mai noioso!) della giusta spettacolarità.
Stupenda la trattazione antropologica: l’uomo non progredito che si deve adattare ai ritmi della natura, che li deve sfruttare ai propri fini. Una storia ripetuta drammaticamente, e/o gioiosamente, dentro la parabola esistenziale di centinaia di milioni di individui. Un uomo non civilizzato, un uomo primitivo. Commuovente, l’uomo a contatto con la natura più selvaggia, cruda ed estrema.
Ottima la colonna sonora, dalla coltre levigata quanto quella della neve che qui la fa da padrone, in inverni abitualmente ai limiti della vivibilità umana (se non oltre). Stupendi trucco e costumi.
Strepitosa la fotografia di Lubetzki, in tutti i dettagli naturalistici, da quelli più ripugnanti ma veri a quelli più poetici e ugualmente veri. Il pregio della pellicola è che qui, del resto, è tutto vero, o quanto meno verosimile. Questo è un gran bel film storico, sul primo ‘800, la conquista del nord America da parte degli avventurieri europei, spesso sovvenzionati dai governi in questa lotta pioneristica: che viene vista per quello che è. Mitica fino a in certo punto: l’avidità, e non il benessere dell’umanità, ha spinto questi individui a fare la cosa che meglio sapevano fare, ovvero gli individualisti. Un ottimo ritratto del capitalista bianco incarnato alla grande da Hardy: amorale e immorale, furbo e scorretto, i cui interessi non vanno mai oltre l’arricchimento proprio, che non sa vedere altri piani della realtà.
I nativi non appaiono certo perfetti; ma possono a buon diritto accusare i bianchi delle peggiori nefandezze, e di essere stati da loro derubati di tutto quanto loro apparteneva. Gli “indiani” fanno la loro figura nettamente migliore, nel loro ridursi alle esigenze di sopravvivenza, commisurandosi così alla natura stessa; nel non andare oltre nella violenza, se non a quella strettamente necessaria per sopravvivere, su per giù¸ comunque con una carica aggressiva e ostile nettamente inferiore a quella dei bianchi, che appaiono indicibilmente più malvagi. E questa è storia, per quanto occultata: ben vengano pellicole come questa, o “Balla coi lupi”, per sostituire le menzogne americane del genere western con una più verisimigliante rilettura dei fatti storici. Di quei fatti storici che per i nativi del Nord America rappresentarono un autentico genocidio, culturalmente preparato e giustificato (per non parlare del genocidio compiuto contro i nativi del Centro e del Sud America, perpetrato dagli europei già da tre secoli prima).
Le scene indimenticabili sovrabbondano: Di Caprio si conferma immenso sia quando combatte, perdendo, con l’orso, o quando mangia carne cruda ma ancora palpitante, di animali appena uccisi (pesce, bisonte…); quando dorme dentro il cavallo dopo avergli tolto le interna (perché senza il tepore del morto ancora caldo, sarebbe morto di ipotermia, come lo stesso attore ha quasi rischiato di fare, in quelle riprese imposte dal regista nell’inverno canadese, anche a -30 gradi reali).
In questo brano la natura è tratta con il rispetto che merita, ma mediata dalla necessità non certo dello spreco, ma della sopravvivenza. Le frequenti scene di animali uccisi, e di natura distrutta, rientrano in un ordine cosmico tragico, ineluttabile. Come tragico è il desiderio di vendetta che anima il protagonista, che gli dà la forza morale per superare ciò che è proprio insuperabile, sotto il profilo fisico ed etico. Una vendetta che non si riduce a se stessa, ma che si innerva sul profondo affetto che il protagonista, Hugh Glass, ha costantemente (come mostra la sua biografia, infarcita di leggenda ma fino a un certo punto) cercato di dare: alla moglie uccisa, al figlio ugualmente ucciso. Rapporti che lui ha sempre coltivato, in modo superiore ad ogni pregiudizio sociale, in quanto ispirati a valori etici profondi. Splendida, in tal senso, anche la scena in cui aiuta la stuprata a vendicarsi del suo torturatore: a dimostrazione di come la vita sia determinata da scelte morali continue da parte di ogni singolo, e di come sia ciò a fare la differenza, nella storia degli esseri umani, per quanto solo raramente la storiografia sia in grado di tenerne traccia.
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