Regia di Christopher McQuarrie vedi scheda film
Mentre sta tornando la Spectre nell’universo rinnovato di James Bond, anche Ethan Hunt si trova a dover combattere un’organizzazione criminale sovranazionale, dotata di agenti ben addestrati e di fondi senza limiti, priva di ideologia ma dedita all’instaurazione pseudo-rivoluzionaria di un nuovo ordine sociale e politico. Il Sindacato, questa Isis senza religione e sotto temporanea copertura, richiama l’analoga Convenzione di Alias, serie spionistica creata da Abrams che fu determinante per il reclutamento del regista per il terzo capitolo di Mission: Impossible. Da allora, e con la regolarizzazione di Abrams come produttore attraverso la Bad Robot, le avventure di Ethan Hunt si sono serializzate e i collegamenti da un episodio all’altro si sono moltiplicati. E il quinto, in effetti, prende le mosse dalla conclusione del precedente, dalla riorganizzazione di una nuova squadra, secondo il modello televisivo originale, dall’assenza di un segretario di stato, assassinato davanti ad Hunt, e dal sospetto che circonda l’IMF.
McQuarrie è molto abile a costruire un intreccio di rimandi, iniziando con un’avventura già avviata nello stile dei classici Bond, a gestire inquadrature e personaggi con l’esuberanza di Mai dire mai, il Connery apocrifo, proporre echi di Alias (ep. 3), offrire covi tecnologici per le operazioni della squadra (ep. 4), ripetere suggestioni hitchcockiane (ep. 2) con la lunga scena all’opera di Vienna, sfruttare le imprescindibili maschere mimetiche e ironiche allusioni (il portachiavi con la coda di coniglio: ep. 3) e, soprattutto, negando l’assolutismo protagonistico di Cruise restituendogli quella squadra eliminata esplicitamente (e letteralmente) nel primo episodio. Ma il regista non si dimentica di costruire trame intricate con doppiogiochisti e traditori imprevisti, com’è nel suo stile, di sorprendere con scorci architettonici arditi, come già nel precedente Jack Reacher, e di sgranare la fotografia dai colori morbidi, richiamando film di prima dell’era digitale. Consapevole e citazionistico senza essere volutamente postmoderno o tarantiniano, McQuarrie offre a Cruise il solito veicolo divistico giocando però anche sull’invecchiamento dell’attore e del personaggio, citando il tempo che passa e la crescente inadeguatezza fisica, la necessità di una collaborazione di gruppo per la conclusione della missione e lasciando, infine, tutto lo spazio per un’adeguata e coerente prosecuzione della serie.
Lo sguardo del regista come autore si svela obliquo, nei dettagli e nelle strizzatine d’occhio allo spettatore, non mette mai in crisi la narrazione o l’efficacia spettacolare delle scene d’azione, numerose e ben costruite, a volte però riprese da una distanza canzonatoria (mai presente nei Bourne, ad esempio) e senza tralasciare un’ironia di fondo con intermezzi da commedia (delegati soprattutto alla spalla comica di Simon Pegg), che mette a repentaglio, senza comunque mai distruggerla, la credibilità dell’insieme. È un invito al gioco che offrono il regista e i suoi attori, e a stare al gioco delle sue note convenzioni di una serie spionistica che deve guardarsi le spalle da un rinvigorito Bond, da un clima geopolitico evoluto rispetto ai “40 anni prima” del suo esordio televisivo e, pur mantenendosi ben riconoscibile, difendersi dalle innovazioni tecniche apportare dai Bourne come dagli altri Salt o Knight and Day (l’autoparodica - o quasi - rivisitazione del genere dello stesso Cruise). E, ancora una volta, l’innovazione nella tradizione passa attraverso la gestione della fabula cinematografica e la sua espressione secondo moduli e modalità tipiche della narrazione televisiva. Che, in fondo, per Mission: Impossible, rappresenta anche un ritorno alle origini.
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