Regia di Stéphane Brizé vedi scheda film
LA LEGGE DEL MERCATO "è insieme una finzione e un documentario. E’ un film politico, contro la brutalità dei nostri tempi, contro la disoccupazione che annichilisce la dignità. Contro la disumanità dei target aziendali. Racconta la nuova classe operaia che trasmigra dalla fabbrica ai supermercati, dall’industria al terziario, passando per la disoccupazione. In totale solitudine. Non c’è il sindacato, le istituzioni balbettano…”
Thierry, sposato con un figlio disabile e fresco disoccupato si ricolloca sul mercato del lavoro facendo colloqui e compilando curriculum. Per poter garantire una istruzione dignitosa al figlio, per non svendere la sua mobil-home al mare (come suggerisce la banca “amica”), per pagare il mutuo egli diventa un vigilante di un grande supermercato in cui, oltre a controllare i furtarelli dei clienti, deve visionare in video i suoi colleghi alla cassa. Chi sottrae buoni sconto o ricariche punti viene tagliato, non prima di essere umiliato. Chi si uccide per la vergogna va coperto dai direttori e responsabili (disumani) delle risorse umane con presunti problemi familiari. Thierry, al culmine dell’ennesimo status di testimone delatore, all’ennesimo spettro di licenziamento senza giusta causa scappa.
La dignità del lavoro, ecco cosa si è perso per strada, tra riforme che strizzano l’occhio ai nuovi padroni invisibili, al mercato entità astratta, alla precarietà e alla flessibilità selvaggia. Intenti nobili quelli de LA LEGGE DEL MERCATO. Peccato che il regista Stéphane Brizé non sia nemmeno la metà di un fratello Dardenne. Il suo tentativo di cinema è palesemente ispirato a loro, purtroppo a furia di togliere il risultato langue. Un film troppo asciutto diventa arido, i tempi dilatati delle scene stancano. Solo documentario e nulla finzione avrebbe giovato. La materia del lavoro è lava incandescente che la messa in scena raffredda e delude per buona parte. L’unico professionista Vincent Lindon ci mette la faccia e i baffi, giudicati i migliori al Festival di Cannes 2015. Non bastano nemmeno i balli rock ‘n roll da camera a convincere. Ken Loach ci ha insegnato che certi messaggi necessitano di forza, rabbia e grinta. La narrazione non la frammentarietà.
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