Regia di Stéphane Brizé vedi scheda film
La legge di mercato è un film bellissimo che non finisce mai. Nell’ultima inquadratura si intravede l’adagiarsi ad un futuro sconosciuto, le cui coordinate non possono essere tracciate nemmeno da un gesto di silenziosa, e per questo ancora più portentosa, ribellione. Thierry sveste i panni ordinari dell’addetto antitaccheggio e ripiomba nel buio della instabilità. È figlio dei tempi e sa benissimo che ad essi conferisce senso non il denaro, ma la dignità. Sceglie, dunque, conformemente alla sua legge, accantonando per un istante (per un periodo? Per tutta la vita?) quella del titolo.
Anche il film è figlio dei tempi. Nel dipingere in sottrazione quadretti di una disperazione troppo umana, nell’indagare negli occhi di insospettabili e miseri Arsenio Lupin, nell’eviscerare la vergogna, parente non prossima di una colpa che non può sentirsi realmente propria. La telecamera a mano, a volte nervosa, a volte indugiante in lunghi piani sequenza che si fanno reportage di rapporti umani cordiali ma inesorabilmente tesi (l’offerta di lavoro tramite Skype, i dialoghi con la funzionaria di banca, che arriva a prospettare la morte non quale evento in sé bensì sotto forma di merce di scambio, il tentativo di vendere la casa mobile delle povere vacanze) suona la musica triste dei nostri giorni di crisi. Una crisi mai urlata, semmai suggerita, eppure evidente in ogni minuscola piega di case, abiti e sguardi.
Con balzo ellittico apprezzabile scopriamo Thierry, già seguito nelle infinite ed inutili peregrinazioni alla ricerca di un qualunque lavoro, fosse anche sottostimato rispetto a capacità ed esperienze, apparentemente integrato e tirato a lucido nel grande magazzino che ne ospita la voglia di guardare avanti. Ma in quel supermercato, dove tutto è anzi iper, comprese ipocrisie da altrui pensionamento e ristabilimento forzoso dei rapporti di potere (tu sei il ladro, noi quelli che ora abbiamo in mano il tuo destino), e dove il soldo, ca va sans dire, la fa da vero padrone (“Se lei paga la merce rubata, è tutto a posto”, come se il rimettere le cose secondo il loro ordine potesse davvero eliminare alla radice una miseria che è fredda e incomprensibile, per i moderni nuovi poveri), Thierry non può non specchiarsi e non riconoscere la paura e l’algida tristezza che è stata (e probabilmente sempre sarà) anche la propria. Allora opera con la discontinuità segnalata all’inizio e, semplicemente, se ne va. Non è codardia, non è indifferenza. Forse è terribile, ma meravigliosa, coerenza.
C’è molto di straziante in La legge del mercato. C’è la capacità di far riconoscere a tutti i dialoghi di una quotidianità che vorremmo non fosse mai la nostra e che pure avvertiamo molto prossima. C’è il talento di registrare, con seraficità dolente, i piccoli sgambetti che il presente oppone ai nostri saltelli verso la felicità. E poi c’è un attore meraviglioso, giustamente premiato a Cannes. Vincent Lindon ha l’espressione di chi è sempre altrove, o altrove vorrebbe stare. Un uomo costantemente alla ricerca di una deviazione, benchè padre e marito tenero e felice, che sembra avere trovato nel ballo, se il ballo non fosse soltanto un altro po’ di fumo che incamera alla ricerca del vero altro. Thierry le ha viste tutte ed ora, in modo del tutto naturale, non ha più voglia di lottare. Lindon rende tutto questo con sguardi difficilmente sostenibili, perché sono gli sguardi candidamente attoniti di un uomo che rischia di precipitare e che forse precipiterà. Ma, intanto, ha il coraggio di ribellarsi. Senza fare feriti e prigionieri, ma soltanto scegliendo di tornare nel suo buio.
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