Regia di Stéphane Brizé vedi scheda film
tempi moderni
La legge del mercato è un film minimalista, un quasi documentario.
Scabro, essenziale, formalmente ridotto all’osso, si nega, e nega all’occhio di chi guarda, ogni possibile elemento spettacolare nella messa in scena, sposandosi alla storia che racconta, ugualmente scarna ed emotivamente laconica, sviluppata per accumulo di situazioni simili a piccoli lucidissimi quadretti di quotidiana (misera) esistenza.
Radiografia di una (non)vita come tante (quella del protagonista Vincent Lindon e, di riflesso, la nostra), che espone, algida rigorosa razionale, le molteplici difficoltà del nostro vissuto contemporaneo, costantemente in affanno, attanagliato dalla complessa gestione del ménage familiare, dal lavoro che scarseggia -e quando c’è provoca rabbia, frustrazione, insoddisfazione, avvilimento-, dai soldi che non bastano mai e dalle sfibranti ingiustizie di un sistema capitalistico che, ogni giorno di più, stritola nella sua morsa spietata centinaia di migliaia di persone finite finanziariamente sull’orlo del barato, costrette a ‘disfarsi’ di tutto ciò che improvvisamente diventa superfluo e che sul mercato possiede ancora una parvenza di valore.
A svendere i sacrifici di una vita e con essi i ricordi ed un pezzo di dignità, lesa e mortificata.
Nel suo incedere lento, apparentemente apatico ma innervato di una tensione che non lascia scampo per come disseziona con sguardo chirurgico i singoli avvenimenti (domestici e lavorativi) e relative dinamiche che sceglie di mettere a fuoco, il film di Stéphane Brizé ammutolisce per il tratto compostamente esplicito e feroce, asciutto e deciso nel condurre lo spettatore (laddove ce ne fosse ancora bisogno) ad una totale presa di coscienza dell’umana condizione odierna.
Disillusione, disperazione, rassegnazione, mortificazione dominano lo stato d’animo di chi ancora crede di avvalersi del diritto di vivere.
Che oramai ne è solo sgraziata parodia sotto ignobile ricatto, scaraventata di peso all’angolo di una stanza impersonale piccola e spoglia, gelidamente osservata, mentre, nel suo agonizzare, esala l’ultimo respiro.
Ma a tradire la cupa, asfissiante asetticità che pervade l’opera tutta, emblematico microcosmo delle nostre personali, distinte eppure in fondo in fondo tutte uguali realtà, è la perenne smorfia di dolore, magnificamente trattenuta, di un commovente Vincent Lindon, che lavora di sottrazione, monolitico e rigido a dimostrazione del suo sentirsi a disagio con la vita.
È un silente disadattato, secondo la vincente-dominante logica del mercato, delle relazioni interpersonali, dello stesso stare al mondo, sottoposto, per mera questione di sopravvivenza, a severe prove di estrema flessibilità, di inappuntabile efficienza, provvisto, suo malgrado, di assoluto senso di abnegazione e di obbedienza incondizionata.
A garanzia esclusiva di precarietà. Cancellando ogni traccia di umanità, azzerando l’empatia, annientando la compassione.
Eroicamente disadattato.
Per essersi rifiutato di continuare, per aver scelto, alla fine, di disobbedire.
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