Regia di Elia Kazan vedi scheda film
Uno dei pochi bei romanzi sulla macchina-cinema e al contempo sull’ossessione-cinema lo scrisse Francis Scott Fitgerald, che morì prima di concluderlo. Al centro della scena c’è un personaggio morto, e lo sappiamo sin dal principio. Ad essere morto è anche il mondo che viene raccontato, quello della Hollywood classica degli anni trenta, fotografato con curiosità e pertinenza da dietro le quinte. I protagonisti, difatti, sono principalmente dirigenti di una grande casa di produzione, e il protagonista assoluto è, appunto, Monroe Stahr, trentenne rampante e pressoché infallibile.
Le star, da Rodriguez (il redivivo e divertito Tony Curtis) a Didi (Jeanne Moreau in un gustosa trasferta), fanno da coro, stanno nei film in filologico bianconero che Starh produce, interagiscono con i media. Il perno dell’intero film non è solo Hollywood, ma proprio Monroe, attorno a cui si muove una storia di amore perduto, di disillusa decadenza, di estrema solitudine. È l’ultimo film di Elia Kazan, il regista sa perfettamente di cosa parla e come mettere in scena la fin troppo scrupolosa e al contempo pignola sceneggiatura di Harold Pinter, e probabilmente chiudere la carriera con una storia del genere lo trovò quantomeno interessante.
Sorta di foto di gruppo melodrammatica e intimamente virata in seppia (che giustifica il titolo italiano, ben più corale di quello originale), romanzo per immagini che porta con sé il fantasma dell’incompiutezza e la maledizione del protagonista (e quindi il senso dell’originale L’ultimo tycoon), è l’archetipo del film crepuscolare, dilatatissimo nella rappresentazione di una storia d’amore impossibile e smarrita tra le pieghe del tempo e piacevole nelle sequenze sul cinema e sui suoi meccanismi (il ritmo concitato che le caratterizza poco si accorda con quello flemmatico del mèlo speculare), probabilmente più per merito degli attori in ballo (Robert Mitchum che porta con sé il sapore di giorni perduti, Donald Pleasence come sceneggiatore nevrotico, il capo degli scrittori Jack Nicholson che duella memorabilmente nel prefinale con De Niro anche attraverso la dialettica del ping pong) che dei reali episodi narrati.
L’alcolico, decadente e romantico Robert De Niro è il nome tutelare della New Hollywood che stringe la mano col maestro Kazan: e questo equilibrio talora raggiunto fra cinema del passato e nuove tendenze (ben evidenti, ma riarrangiate dall’esperto Elia) è soprattutto merito di loro due (Pinter resta sullo sfondo). La celebra sequenza su come si debba scrivere una scena ne è la dimostrazione.
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