Regia di Jay Roach vedi scheda film
Elemento indispensabile della filiera cinematografica, la figura dello sceneggiatore è destinata ad occupare una posizione defilata rispetto a quelle del regista e degli attori. La causa va ricercata in parte nella natura stessa del suo lavoro che incomincia prima degli altri e si conclude alla vigilia delle riprese, in parte nel fatto che la scrittura per essere efficace ha bisogno di una dimensione che solo il silenzio e la solitudine sono in grado di ricreare. C’è poi una terza ragione comprensiva delle precedenti che dipende dall’abitudine a ragionare con la propria testa e dalle reazioni che questo comporta nelle stanze del potere.
In “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” c’è un po’ di tutto questo ma anche altro. Perché, oltre a raccontare l’odissea dello sceneggiatore più famoso di Hollywood, riverito e lautamente compensato dall’industria cinematografica fino a quando, sul finire degli anni 50’, il maccartismo e le liste di proscrizione ne fecero un reietto, costringendolo a lavorare con uno pseudonimo e per progetti indipendenti, il film di Jay Roach è anche il ritratto della mecca del cinema così come appariva al tramonto dei cosiddetti anni d’oro, quelli che videro la crisi dello studio system e più tardi la nascita del nuovo cinema americano. In questo modo, accanto alle vicissitudini del protagonista, costretto a impegnarsi su copioni di secondo ordine – cosa che non gli impedì la vittoria di due oscar, anche se solo il secondo gli fu nominalmente attribuito – per mantenere moglie e figli, il film propone la passerella delle celebrità del tempo – da John Wayne ed Edgard G. Robinson a Hedda Hooper, regina del pettegolezzo e sostenitrice della campagna del senatore McCarthy – che, in linea con il biopic più tradizionale vengono tipizzati assecondando aneddoti e stereotipi.
Nulla di nuovo, se non fosse che “L’ultima parola – la vera storia di Dalton Trumbo” trova il modo di ritagliarsi la sua fetta d’importanza grazie alla contaggiosa energia di Bryan Cranston il quale, dopo il successo di Breaking Bad conquista il grande schermo – e una nomination all’Oscar – con una parte da assoluto mattatore, e in virtù di una messinscena che, assecondando l’ottimismo e la brillantezza proprie di Dalton Trumbo, adotta estetiche da commedia, e quindi una vivacità di colori, una spigliatezza di scrittura e un’attitudine interpretativa che, nel loro insieme compensano la drammaticità del contesto e ne rendono piacevole la visione.
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