Regia di Richard Brooks vedi scheda film
Questa fastosa produzione impeccabile ma inesorabilmente datata, è il classico prodotto del suo tempo, E’ però anche un raffinato esercizio di stile che, nonostante l’inevitabile presa di distanza critica resa necessaria dagli anni trascorsi, continua a mantenere un posto privilegiato, fra i melodrammi fiammeggianti della seconda metà del‘’900..
“L’ultima volta che vidi Parigi” di Richard Brooks, uno dei più travolgenti melò degli anni ’50, è finalmente disponibile in DVD grazie a Noshame Films. Si poteva ovviamente sperare in qualcosa di meglio, anche se in genere questa casa non offre mai prodotti “eccelsi”, ma come spesso accade, ci si “deve” accontentare, anche se i colori non sono così “estremi” come me li ricordavo (ma certamente molto più “accesi”e conformi di quelle pallide reminiscenze che “tentavano di resistere alle ingiurie del tempo” nelle malinconiche copie che ogni tanto transitano in tv). Sono in ogni caso cromaticamente attendibili, grazie al “meticoloso e filologico lavoro di restauro digitale che ha consentito di riportare la pellicola al suo antico splendore”, almeno così recita la fascetta), mentre gli extra sono invero scarsini (potremmo dire inesistenti, visto che si limitano a una scialba galleria fotografica davvero poco pregnante, a qualche manifesto ripreso dalla distribuzione internazionale della pellicola e a una “riproduzione” delle copertine delle varie edizioni in DVD circolanti nelle altre nazioni). Comunque il corretto formato cinematografico è rispettato (e questo è fondamentale) e possiamo nuovamente “godere” delle voci in originale che restituiscono sempre la giusta e “completa” dimensione ai corpi che il doppiaggio, per quanto pregevole, spesso snatura un poco. Confesso che è una delle pellicole sulle quali, da ragazzo, ho versato un inarrestabile fiume di lacrime del quale forse adesso mi vergogno un poco (ma non troppo, devo ammetterlo). Mi sono infatti disperato e commosso agli sviluppi disastrosi di questi amori travagliati e “perduti”, finendo per identificarmi profondamente con la lacrimevole passionalità delle situazioni che inesorabilmente trascinavano verso tragici epiloghi, un contesto così rigoglioso e affascinante, da far “galoppare la fantasia” oltre il possibile, come oggi, nell’epoca della “razionalità assoluta” sarebbe difficile persino immaginare. Sono probabilmente proprio queste le ragioni pere le quali ho iconizzato nella memoria più di altri titoli, magari maggiormente meritevoli e “resistenti al passare implacabile degli anni” questa fastosa produzione, impeccabile e raffinata, ma inesorabilmente datata. In effetti è il classico prodotto del suo tempo, ben studiato a tavolino per ottenere quell’incontenibile successo di pubblico al quale fu destinato, molto MGM nella confezione (il segno di riconoscimento, adesso particolarmente evidente, lo contraddistingue indelebile con il suo inconfondibile “marchio di fabbrica”), ma anche un “raffinato esercizio di stile” che, nonostante l’inevitabile leggera presa di distanza critica resa indispensabile dagli anni trascorsi, continua a mantenere, volente o nolente, un posto privilegiato nel mio cuore ancora e sempre bisognoso di forti emozioni. Il film, tutto giocato sul filo del rimpianto e della memoria, trae spunto da un racconto di Francis Scott Fitzgerald (“Babilonia rivisitata” del 1931) che fa parte della raccolta “ 28 racconti”, come si evince da ciò che è indicato nei titoli di testa, ma come potranno rilevare tutto coloro che avranno voglia di leggere l’originale, i riferimenti “certi” alla novella riguardano solo – e in parte - il presente della storia, perché esistono nella breve novella, solo pochissimi accenni, per altro nemmeno significativi, sugli accadimenti precedenti, che costituiranno il nocciolo centrale e più corposamente coinvolgente rivissuto in flash back. Sono per contro più marcatamente accentuate le differenze (a cominciare dal finale “accomodante” e pacificatorio del film, per non parlare della fortissima drammatizzazione empatica imposta alle “ragioni” che determinano la morte di Ellen, o alle diversissime motivazioni del profondo “dissidio” di intolleranza “reciproca” fra Charles e Marion nel film molto più platealmente imposte da una gelosia indotta). Le fonti successive, indicano proprio per la parte centrale, la discendenza da un romanzo dal titolo corrispondente a quello della pellicola – che non conosco e che non posso giudicare – di Elliot Paul. Indubbiamente sarà questa la realtà effettiva, ma io credo di ravvisare più che altro nel risultato, la volontà di miscelare al “racconto” di Fitzgerald, moltissimi elementi (o riferimenti) della vita del suo autore (e di tutto il percorso esistenziale di tutta quella generazione “belle e dannata” della quale è stato il cantore inarrivabile) a partire dal suo tormentato rapporto con la moglie Zelda (come si potrebbe facilmente dedurre anche dall’aver modificato la professione del protagonista in quella di “scrittore”, prima incompreso e frustrato, e poi finalmente affermato autore di romanzi dopo la disintossicazione dall’alcol e le crisi “esistenziali” che hanno rischiato di distruggerlo definitivamente). Indirettamente – immagino - il regista e i suoi sceneggiatori, intendevano fornire un quadro “appassionante” di un’epoca certamente irripetibile,con i suoi eccessi e le sue cadute, il ritratto insomma di quei “meravigliosi anni ‘20” segnati da uno “spartiacque” come il ’29, l’anno di una profonda e inarrestabilecrisi economica che mise fine alle illusioni, ma anche quello di altri “eccessi” estremizzati come quelli metereologici (l’inverno di quell’anno si segnalerà come uno dei più freddi e duri del secolo scorso e le sue nevicate potranno considerarsi davvero epocali, mentre corrisponde al periodo anche l’ultima grande epidemia – quella della “spagnola” - che seminò morti e disgregazioni in tutto il mondo). Ma purtroppo la produzione pretese e ottenne il “dannoso” (soprattutto analizzato in prospettiva) aggiornamento “storiografico” della vicenda dagli anni ‘20 (sua naturale e indispensabile cornice), agli anni ’40 e successivi, privando così il contesto dell’humus prioritario della sua ragione di essere, in ragione alla prima fonte “di riferimento”. Privato della “veridicità cronologica, rimaneva così preponderante solo il versante “privato” degli eccessi e delle incomprensioni, quasi una disperata affermazione della vita nel privilegiare su tutto il “ritrovato” piacere dell’esistenza con gli inevitabili egoismi che ne conseguono, sulle ferite irrimarginabili derivanti da una tragedia bellica di dimensioni bibliche da poco conclusa, ma della quale pere la verità arrivano qui solo echi lontani e molto più “idilliaci” e “camerateschi” della realtà oggettiva. Pigiando fortemente il pedale del melodramma, ma soprattutto spostando la dimensione temporale, viene reso inevitabilmente meno “realistico” e convincente proprio a causa delle eccessive manipolazioni, il malinconico mondo fitzgeraldiano che doveva invece rappresentare lo sfondo ideale, quell’ebbrezza sottile (o anche l’eccessiva e incontenibile voglia di vivere “di là dal paradiso”), che la sintesi della vicenda, tutta giocata su incontenibili amori e deprecabili gelosie, rende invece più assimilabile con il mondo patinato del fotoromanzo. Ma veniamo al soggetto (sceneggiatura dello stesso Brooks con Julius e Ohilip Epstein): tornato a Parigi per tentare di ricongiungersi alla figlia, Charles (un Van Johnson in una delle sue migliori interpretazioni, doloroso e sofferto, quasi schiacciato dal peso delle responsabilità) rievoca gli eventi che nei giorni della liberazione di Parigi lo avevano portato ad incontrare e ad innamorarsi – ricambiato - di Helen, ragazza fuori dagli schemi e dalle convenzioni (la “straordinaria” Elizhabeth Taylor degli anni del suo massimo splendore, una bellezza così sfarzosa e “irraggiungibile” - quasi una radiosa “dea” dagli smaglianti occhi cangianti - valorizzata al massimo dal sapiente contributo dei costumi appositamente disegnati per l’occasione, e in particolare da quello straordinario “vestito rosso” che si staglia come una macchia di sangue sul bianco candore della neve in uno dei momenti clou, che la sola “opulenza” visiva delle immagini, riesce ancor oggi a rendere ineguagliabile e tale, da far sobbalzare il cuore per quell’emozione sottile che illanguidisce l’anima e inumidisce le ciglia). Frustrato nelle sue ambizioni di scrittore e nonostante una fortunosa “ascesa economica” grazie al petrolio, il loro matrimonio coronato dalla nascita di una bambina, finirà lentamente e inesorabilmente in frantumi, fra tradimenti e sbronze che determineranno anche la prematura fine della donna per una “procurata” (accidentalmente) polmonite, allora spesso mortale. Rientrato a Parigi dall’America dopo essersi affermato come scrittore e aver vinto la sua battaglia con l’alcool, Charly vorrebbe riprendersi la bambina che la cognata (una “astiosa” e come al solito inappuntabile Donna Reed, ancora una volta destinata all’ingrato ruolo di deuteragonista) forse per un inconscio sentimento di vendetta malamente mascherato da rancore per la causata morte della sorella da parte del marito ubriaco, ma originato dalla frustrazione di non aver visto riconosciuto il suo ugualmente intenso - ma mai espresso amore - tenterà di negargli come ultima impossibile e inconscia rivalsa. Il finale, sarà come sempre in queste circostanze , “a tarallucci e vino”, tanto positivo quanto improbabile nella sua improvvisa repentinità. Completano il ragguardevole cast “all stars”, l’eccentrico padre di Walter Pidgeon, Eva Gabor e un giovanissimo Roger Moore qui agli albori della sua fortunata carriera. Indimenticabile infine la canzone del titolo, musicata da Jerome Kern, che sottolinea con le sue note appassionate tutte le scene salienti dell’azione rendendole ancor più debordanti di sentimentalismo. D’accordo… il tempo evidenzia più di una ruga, i pregi della parte centrale del racconto si scontrano con l’eccessiva melensaggine languorosa del finale, ma che importa? Io trovo ancora esaltante (mi verrebbe da dire “conturbante”) la visione di questa comunque ottima prova registica (basta vedere come riesce a dominare una materia così “sdruccuiolsa” senza inutili cedimenti, la perfetta scansione dei ritmi, la tensione costante, la progressione mentronomica degli accadimenti, la cura nei particolari e gli incastri del racconto) di un allora giovanissimo, ma già molto più di una promessa, Richard Brooks… E poi come è possibile ancora i giorni nostri sottrarsi all’attrazione e all’abbandono dell’“emozione radiosa” di quei volti mitici che hanno illuminatola nostra gioventù per ritrovare intatto – magari solo per un attimo - il “sapore” nostalgico di quel tempo lontano e irripetibile, quando il cinema come nessuna altra espressione, riusciva a tenere accesa l’immaginazione e la fantasia!!!
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