Regia di Antoine Fuqua vedi scheda film
LA RAGE AU VENTRE (SOUTHPAW – L'ULTIMA SFIDA)
La boxe ha già detto molto, se non tutto o sin troppo al cinema, soprattutto nel passato non lontanissimo (gli anni '70/'80 di Toro Scatenato e i vari Rocky Balboa) e anche non molto tempo fa (Eastwood su tutti col pugilato al femminile dello splendido Million Dollar Baby) per non destare sospetti o dubbi preventivi.
Trovare poi alla regia un furbetto come Antoine Fuqua, non certo un incapace, ma di sicuro uno che vive di facili allori sin troppo celebrati per quel Training Day dignitoso ma tutt'altro che capolavoro (per tacere di altre e ben più disastrose o quantomeno scialbe opere che ne seguirono), conferma certi premeditati sospetti e diffidenze.
Ne “La rage au ventre” tuttavia, blockbuster prodotto dai fratelli Weinstein, la vicenda del pugile campione eccentrico e caratteriale dei pesi medi Billy Hope, travolto da una disgrazia familiare che ne trascina a fondo vita e carriera, per poi fargli risalire la china grazie alla fattiva concreta collaborazione di un anziano ex pugile di colore, gode di una sua dignità di racconto, che si esplicita soprattutto grazie all'impronta attoriale di un Jake Gyllenhall sempre più elemento decisivo per la riuscita delle interessanti pellicole che ultimamente lo vedono coinvolto e motivato. Quella dell'attore è certamente una prestazione eccentrica e caratteriale, che punta sulla fisicità prorompente propria di una muscolatura da pugile professionista che rende il nostro protagonista un gladiatore moderno, umorale e sopra le righe, ma in qualche modo figura genuina; così come invece, al contrario, nel recente "Lo sciacallo", lo stesso versatile interprete si annullava fisicamente per calarsi nelle vesti flaccide ed abbondanti, melliflue e calcolatrici di un intrigante, viscido e pericoloso truffatore, millantatore della verità e serpente a sonagli dalla morsa fulminea e a tradimento.
Il risultato del film, per certi versi convenzionale e prevedibile, come ormai tutto il cinema di Fuqua finisce per essere o svilirsi, è tuttavia positivo per la capacità di resa - più per merito del potente fascinoso interprete che del regista efficacemente dinamico ma tutt'altro che originale - di un personaggio dello sport che attrae in modo magnetico il pubblico, a quel punto in grado di mandare giù, ingoiando senza troppo spirito critico, certe baggianate smargiasse o certi cliché sulla famiglia perfetta americana, per concentrarsi su un dramma umano singolo che trova la sua svolta grazie ad una ferma volontà di risalire la china e tornare nuovamente a galla da un abisso apparentemente senza via di scampo.
Un pugile, il suo sguardo penetrante: la rabbia che si mescola inscindibilmente con la paura e la voglia di reagire, pur nella consapevolezza che ormai la cosa più importante è andata inesorabilmente e brutalmente perduta. Questo è ciò di veramente buono che resta del film.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta