Regia di Ennio De Concini vedi scheda film
Prima del revival hitleriano degli ultimi anni, c'era stata quest'opera singolare di Ennio De Concini, in cui la parte del dittatore era affidata a un mostro sacro come Alec Guinness, il quale, diversamente dalle interpretazioni sfumate di gran parte della sua carriera, dimostra di saper incarnare gli umori e i furori del personaggio che più di ogni altro nell'evo moderno ha rappresentato, a grandi livelli, la personificazione del male assoluto. Hitler, nel copione elaborato a partire da un testo di tale Gerhardt Boldt, resta un mistero perfino per la compagna (alla fine moglie) Eva Braun, anche a pochi minuti dal momento del suicidio: lui che fino a poche ore prima si dichiarava fiducioso in un vittorioso contrattacco militare, confessa di avere capito che avrebbe perso fin dalla sconfitta di Von Paulus a Stalingrado, rendendo tragicamente logica la domanda della donna sul perché allora abbia continuato a mandare tanti giovani tedeschi a morire. Ma il film, che a momenti sembra procedere per sentenze che sintetizzano gran parte del (chiamiamolo così) pensiero hitleriano, quasi come in Anno uno di Rossellini su De Gasperi (ma in maniera assai meno noiosa), si guarda bene dal voler essere un approfondimento sulle idee del führer, per concentrarsi, invece, sull'atmosfera cupa e livida del bunker nel quale capi militari e gerarchi del Reich si trovarono a trascorrere gli ultimi giorni di guerra. Un'atmosfera che non trascura aspetti che sfociano nel grottesco, volontariamente nello spettacolo cinematografico, ma involontariamente nella realtà del bunker. Come quando, durante la cerimonia matrimoniale, il funzionario chiede, come di prassi, a Hitler se sia di pura razza ariana; o come quando, dopo avere sentito lo sparo con il quale il dittatore, fiero avversario del fumo, si era ucciso, tutti i presenti si accendono automaticamente sigari e sigarette.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta