Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Smettere di fumare.
La coscienza sporca dell’America nella lotta ai cartelli della droga messicani è risaputa: non solo nella finzione cinematografica ma anche nella “realpolitik” applicata da forse tutte le amministrazioni governative di ogni colore politico nell’epoca moderna, a partire del boom delle droghe degli anni 60/70. Regole diplomatiche “borderline” che spesso, ipocritamente, gli USA criticano aspramente se applicate da altri paesi a dittatori/stati (in quel momento politico) sgraditi.
La bolgia messicana è poi emblematica di una piaga difficilmente risolvibile con la mera forza militare, troppo vasti i confini da controllare (difficilmente con gli utopici muri clinton/trumpiani) e troppo alta la domanda di stupefacenti, alla quale fa seguito una offerta adeguata. L’azione delle forze governative si fa pertanto oscura e procede (spesso) sottotraccia, non sempre legalmente.
Materia filmica vasta (da “Scarface” di De Palma a “Traffic” di Sodenbergh, dalla serie TV “The Bridge” a “Breaking Bad”) e ben sviluppata da Villeneuve, che si addentra nel mondo mefitico dei cartelli con la consueta abilità visiva. Molto suggestiva e memorabile, in questo senso, risulta la lunga sequenza della missione a Ciudad Juàrez: con la tensione crescente del pericolo incombente (potenzialmente) da ogni lato; le riprese aree ci presentano l’inquietante groviglio nella sua interezza, per poi spostare la visuale nella ristretta ottica (dall’abitacolo) della sparuta Kate Mercer, in viaggio con una diligenza armata tra vicoli (violenti) di povertà, scortata da alleati inaffidabili.
Per proseguire poi con le “ectoplasmatiche” immagini delle azioni notturne delle forze speciali nei cunicoli usati per trasportare la droga, emblematiche di un ribaltamento di ruoli che ci fa comprendere alfine l’altra faccia dei “buoni” e la paradossale “relativa” innocenza dei trafficanti.
Il tutto mirabilmente esposto con uno stile volutamente sottotraccia, che preferisce accumulare la tensione del pericolo imminente (le strade, i cunicoli ispezionati col cuore in gola – la mdp un passo avanti agli attori) piuttosto che mostrarne gli esiti. Ambiguità formale che si amalgama anche con la prova degli attori coinvolti, quasi tutti enigmatici e glaciali nel tentativo di immedesimarsi nei doppi o tripli giochi dei loro personaggi, a parte gli emozionati agnelli sacrificali “burocratici” Mercer (una sperduta Emily Blunt) e Wayne (l’anonimo Daniel Kaluuya).
Nel frattempo, in Messico, un altro (ordinario) giorno di follia è passato.
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