Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Ambiguo. Crudo. Oscuro. Da non perdere.
“Sicario” è un’inquadratura che si inoltra negli aspetti più cupi dell’animo umano.
Diretto da Denis Villeneuve (‘Prisoners’, 2013; ‘Incendies’, 2010), presenta come interpreti principali Emily Blunt, Benicio del Toro e Josh Brolin, impegnati in un’indagine alquanto controversa sui cartelli di droga che imperano nell’odierno Messico.
Il film si apre con un’incursione diretta dall’agente Kate Macer (Emily Blunt), durante la quale gli agenti della FBI sono testimoni di una terribile scoperta: scoperta che da un lato getta fin da subito un’ombra inquietante sulle vicende, e che dall’altro getta le basi per lo svolgimento dell’intera trama. E’ proprio in seguito all’esito della sua operazione che Kate avrà l’opportunità di conoscere l’agente della CIA Matt Graver (Josh Brolin) e, successivamente, il suo collega messicano Alejandro Gillick (Benicio del Toro). Trascinata da una serie di eventi, Kate si troverà suo malgrado invischiata in faccende che sfuggiranno alla sua comprensione, e che metteranno a dura prova non solo la sua integrità morale, ma anche e soprattutto la sua stessa sopravvivenza.
Con qualche défaillance nel ritmo della narrazione, “Sicario” sfoggia un’abile regia, che ha saputo destreggiarsi negli argomenti trattati con grande efficacia e in particolare con grande spirito di innovazione. Il film costituisce il perfetto punto di incontro tra un crime-thriller di stampo americano e un dramma di impronta più marcatamente europea; i personaggi rappresentati non sono mere pedine di una struttura narrativa che prende il sopravvento e inghiottisce le loro singolarità, bensì sono essi stessi la catena portante dell’intera vicenda, con le loro specifiche peculiarità. Il regista sembra voler porre un accento sull’ambivalenza dell’animo umano, concentrandosi particolarmente su quel suo lato più viscerale, più recondito. Più oscuro, come già aveva fatto anche in “Prisoners”. Molti dei personaggi descritti vengono presentati e si presentano essi stessi in un modo che si rivela poi essere ambiguo, se non addirittura fallace, e tutti quelli che rappresentano un’eccezione a ciò, vengono in ogni caso costretti a piegarsi – o meglio, a rivelarsi – una volta sottoposti alla logica di questioni che non sanno gestire, che finiscono per svelare la loro vera natura.
Tutto ciò può risultare a primo acchito celato, se non addirittura scollegato, dalla più evidente e preminente tematica politica: la “War on Drugs”, la guerra della droga. Il film si presenta espressamente come una denuncia contro la violenza che dilaga a causa dei traffici di droga, ed essendo questi concentrati in Messico, o in ogni caso gestiti da figure di origine messicana, si potrebbe pensare che il regista si schieri dalla parte dell’ America come Paese restauratore di pace e giustizia. In realtà, quello che viene sottolineato è l’esatto opposto: i protagonisti, americani o comunque collaboratori di agenzie americane, non fanno altro che mostrare, attraverso il proprio carattere, un lato dell’America che spesso si tenta di celare, di non voler vedere. In un’intervista, Villeneuve afferma che la guerra della droga sta trasformando l’America “nello stesso mostro che stiamo tentando di annientare”. E il messaggio non risalta forte e chiaro proprio attraverso la psicologia dei personaggi?
Fotografia e colonna sonora concorrono indubbiamente a sottolineare la natura inquietante e sinistra delle vicende: la prima, diretta da Roger Deakins, si sviluppa in un alternarsi di colori chiari e colori scuri, caldi e freddi, con un netto contrasto tra beige e nero, quasi a sottolineare ulteriormente la dicotomia che regna nell’animo umano; la seconda, affidata a Jóhann Jóhannsson, è marcata da lunghe note basse, con poche variazioni, quasi volesse rappresentare l’ancestrale voce del deserto, che si lamenta del triste destino dell’uomo. Entrambi Deakins e Jóhannsson avevano già collaborato con Villeneuve nella realizzazione di “Prisoners”, che in effetti, per l’atmosfera e lo spazio dato alla sfera psicologica, somiglia molto al film in questione; è importante tuttavia sottolineare che - insieme al montaggio sonoro – la fotografia e la colonna sonora di “Sicario” sono state candidate nelle rispettive categorie ai Premi Oscar 2016, a dimostrazione di un’eccellenza che con le precedenti pellicole non era ancora stata raggiunta.
Il finale, per concludere, è di una sottigliezza così paradossalmente potente, che rimane impresso nella mente dello spettatore sia visivamente che moralmente, a tormentare la sua psiche per un arco di tempo non indifferente.
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