Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
“I limiti li hanno spostati.” Così afferma Matt Graver, il misterioso agente CIA, alla sconcertata Kate Macer agente FBI.
In realtà è proprio Denis Villeneuve che ha alzato i limiti del genere poliziesco, che ha posto l’asticella ad un livello che negli ultimi anni nessuno toccava. Che ci si aspettasse qualcosa di buono dall’autore dello straordinario La donna che canta e del buonissimo (e non solo) Prisoners era normale dal momento che questo autore (ma autore vero!) non solo non sbaglia un colpo ma rigenera i generi che tocca, ma un risultato di questa portata non me lo aspettavo neanche io che lo stimo dal primo momento. Perché in effetti questo film ha dato un vigore inaspettato al poliziesco e uno scossone ai vari film d’azione che arrivano a valanga, specialmente dall’America, sui nostri schermi. Ma tutto ciò sembrerebbe troppo semplicistico per definire il cinema forte di Villeneuve. Più che mai, più di tantissimi altri autori, ogni momento di narrazione del regista franco-canadese è un momento importante del film, ogni inquadratura ha complessità di sguardo e di messaggio, ogni frase pesa come una sequenza finale: nulla è banale o transitorio.
La lunga coda di suv blindate americane e messicane che filano come un treno superveloce tra i confini tra gli Stati Uniti e il Messico non è semplicemente un convoglio di poliziotti e agenti, ma una sequenza che viaggia come un bisturi nella carne putrida delle zone più sporche di droga, di un pezzo di popolo che non ha scelta: o sta con un trafficante o con uno dei suoi rivali, civili e in divisa, poliziotti compresi. È un luogo infernale dove per "sopravvivere bisogna essere dei lupi" e qui sembrano esserlo tutti: sono scene che ricordano le sequenze “gialle” del Traffic di Steven Soderbergh oppure il polveroso Le belve di Oliver Stone che guarda caso hanno come protagonista in comune con questo film Benicio Del Toro. Le immagini di quello spostamento a tutta velocità del convoglio, che pare il treno di Snowpiercer lanciato però verso un ben preciso appuntamento, sono un’occhiata che abbraccia un territorio brulicante di persone, case, uomini armati che sparano all’impazzata: Villeneuve ci immerge quindi in un baleno in un posto infernale facendoci intendere immediatamente che non sarà una gita turistica, né un’operazione ordinaria. Quelle inquadrature parlano molto più di molti discorsi, il che è anche uno dei grandi pregi di questo regista: l’azione e la tensione non vengono mai meno, il movimento di macchina – sempre con l’obiettivo puntato al cuore della sequenza – è un marchio di fabbrica che riesce a coinvolgere lo spettatore continuamente, senza sosta, eccettuate poche scene dedicate alla preparazione dell’operazione e specialmente per soddisfare le domande della perplessa Kate Macer, che non solo ha molti dubbi sulla legalità delle intenzioni degli agenti CIA ma che è anche spaventata e dubbiosa. L’agente Graver invece non ha il minimo ripensamento: il compito affidatogli, aldilà di ogni legalità o accordi internazionali, è ben preciso ed è determinato ad arrivare allo scopo. Al suo fianco c’è il personaggio più misterioso della trama, il burbero e silenzioso Alejandro, il “sicario” del titolo, un operativo di origini colombiane con un passato di cui non ha voglia di parlare.
Poco tempo alle parole quindi, ma azione continua, montante, che non lascia respirare se non nelle poche pause della trama; anzi direi che non c’è un vero momento topico, ma un continuo di situazioni di alta tensione e di azione fino ad arrivare alla vendetta consumata dal sicario Alejandro-Del Toro. La furia narrativa trova pace solo nel finale quando si verifica un non-duello tra quest’ultimo e la sempre più perplessa Kate, che si troverà alla fine dell’avventura operativa con più dubbi di quelli che aveva prima e che si ritroverà a riflettere non solo sulla giustizia e l’onestà del comportamento dell’America tramite i suoi rappresentanti, ma anche sul suo futuro. Troppe cose ha potuto notare, troppo distanti dai suoi ideali e da ciò che credeva di servire.
Con questo film Denis Villeneuve ha quindi davvero alzato l’asticella del thriller poliziesco. Se Michael Mann aveva recentemente spostato e riscritto nel mondo informatico il genere con Blackhat, Villeneuve lo ha innalzato a capolavoro. Inoltre è riuscito a scolpire i tre personaggi principali con estrema perizia, dando un profilo preciso per ognuno di loro, disegnando una personalità chiara e dando loro la possibilità di esprimersi al meglio. In special modo è apprezzabile il lavoro su Emily Blunt la quale ha risposto in pieno alla chiamata, forse raggiungendo il suo miglior ruolo, esprimendo tutto il suo sgomento e il cedimento delle sue certezze. In conclusione si può affermare che questo è senz’altro un film d’autore però con una forte presenza attoriale. Detto che la fotografia dell’esperto Roger Deakins va a braccetto in maniera sublime con il regista e che la colonna sonora dell’altrettanto esperto Jóhann Jóhannsson è prepotentemente uno dei protagonisti del film, gli elogi vanno senza dubbio per la bravissima Emily Blunt, probabilmente alla sua migliore prova, e al solito ineccepibile Benicio Del Toro, sempre a suo agio con questo tipo di ruolo. Bravissimo davvero! Un gradino sotto ma forse perché penalizzato da un inadeguato doppiaggio il pur sempre valido Josh Brolin.
Se in generale il film merita un voto altissimo, nell’ambito del suo genere invece merita il massimo, come il suo autore, che non sbaglia mai un film.
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