Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
"chi ha subìto un danno è pericoloso, sa di poter sopravvivere"
Come il precedente Prisoners, Sicario è la storia di un uomo come tanti, una persona perbene che messa a durissima prova dalla vita, è stata costretta a guardare, ragionare, e, perciò, ad agire spingendosi al di là del bene e del male comunemente concepibili.
Alejandro vive per forza di cose sospeso in una sorta di limbo morale grigiastro, che ha provveduto a costruirsi accuratamente, fuori da quei cromatismi netti che noi, gente comune, conosciamo e sui quali ci orientiamo per incamminarci nel mondo, e dove solo standoci dentro trova, ogni volta, la sua ragione di vita.
Non ha casa né patria, non é cattivo ma nemmeno buono,
inesistente, per lui, il confine tra lecito ed illecito;
non appartiene a nessuno schieramento o fazione,
a nessuna bandiera, ma soltanto a se stesso,
fedele esclusivamente alla battaglia che, senza sosta, ingaggia contro coloro che hanno fatto a pezzi la sua esistenza.
Villeneuve sembra ricalcare gli stereotipi del genere in cui va a cimentarsi: quando ci accostiamo ad una sua pellicola lo facciamo quasi distrattamente, credendo di assistere all’ennesimo film sulle aberrazioni della guerra (La donna che canta) o al tipico thriller di rape & revenge (Prisoners) o, come in questo caso, al classico poliziesco action sul narcotraffico, e, invece, il regista canadese, tutte le volte ci sorprende, spostando l’asse dello sguardo canonico, del punto di vista divenuto convenzione, per creare, all’interno del genere, qualcosa di nuovo, di difficilmente classificabile.
Un dramma privato moderno, secco e mai lacrimevole, teso, crudo e senza sconti, come il vissuto tragico dei suoi protagonisti, che, forse, troveranno pace una volta portata a compimento la loro personalissima missione, assurda, perfino folle e patologica per chi guarda dall’esterno senza venirne coinvolto direttamente.
Villeneuve cala il suo uomo nel proprio ambiente consono, probabilmente l’unico possibile, probabilmente l’unico in cui ancora si muove con naturalezza e assoluta disinvoltura, e al suo fianco ci mette lei, Kate, i nostri occhi estranei dentro la terribile sanguinosa realtà dei cartelli della droga, al confine tra Stati Uniti e Messico.
Riempiono lo schermo minacciose zone di frontiera, aride e poco ospitali distese desertiche, dove il caldo, la miseria e il terrore convivono con sogni da rincorrere a perdifiato su un polveroso campo di calcetto;
dove l’innocenza fa rima con la corruzione, il desiderio di fuggire via con l’ostinazione a rimanere.
Dove la speranza e la rassegnazione sono sorelle inseparabili.
Sicario ce ne riporta le atmosfere, restituendoci un senso di inquietudine e di angoscia a fior di pelle che ci accompagna per tutta la visione. Ci sentiamo esposti, vulnerabili, costantemente sotto tiro, certamente spaesati, quasi fuori posto, stonati, come una sola donna in mezzo a tanti uomini, come colei che saggia un orrore ambiguo dai contorni fortemente sfumati, mai finora sperimentato, faticando a metabolizzarlo, ad accettarlo come l’unico valido rimedio ad una carneficina dilagante, oramai impossibile da gestire.
La direzione di ampio respiro, ricca di riprese panoramiche ed inquadrature geometriche puntellate da soluzioni visive di indubbia efficacia, si alterna ai numerosi primi piani dei nostri occhi-guida, che osservano per noi e con noi fino al totale disvelamento dei fatti, di ogni singolo ruolo ed identità di quella che è a tutto tondo una squadra militare addentratasi in un territorio di guerra altamente esplosivo, equipaggiato alla maniera dei navy seals, pratico di strategia d’assalto e di sfondamento.
Sicario, al pari dei suoi uomini che agiscono nell’ombra, scalfisce la superficie piana, levigata e rassicurante delle cose.
Per come si addentra nella materia che tratta, sa incastrare lo spettatore nella storia, assorbirlo dal succedersi incalzante degli eventi, risucchiarlo nella vicenda disperatamente umana di chi si ritrova, suo malgrado, a vestire gli scomodi, tormentati panni del sopravvissuto.
Che soltanto l’umana compassione può indurre a sospendere il giudizio sulla sua discutibile condotta.
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