Regia di Jocelyn Moorhouse vedi scheda film
Follia pura.
Non genuina, perché su misura per un grande pubblico - non c'è la magia che avrebbe potuto instillare un primo Tim Burton o qualche altro abile mestierante autore di favole e dedito al compromesso del "film che si vende ma che è comunque un capolavoro" -, ma in ogni caso follia, qualcosa che, ci dirà il tempo, sarà difficile dimenticare. Un pasticcio surreale è l'idea di trama per Jocelyn Moorhouse, un pasticcio multiforme e ibrido, eterogeneo, accumulatore. La regista australiana azzecca sì e no due immagini memorabili (qualche primo piano della Winslet, il finale "infuocato"): infatti, incurante di prodursi in alcuna regia originale, lascia che sia la trama a parlare. Una trama che mischia il classico al grottesco, un'accozzaglia di commedia/dramma/thriller con umorismo, nonsense e addirittura una sequenza splatter. Un trash infiocchettato, insomma, una girandola impazzita, che non sembra un film, ma il riassunto in due ore di una serie televisiva di almeno cinque stagioni. Un miasma di crescente imprevedibilità, che gioca coi generi come fossero pupazzi invecchiati. Un girotondo che ci illude di poter etichettare, ma che programmaticamente cambia le carte in tavola, prima in maniera subliminale, adagiandosi nella storia d'amore che è anche una storia di verità e di menzogne; poi, catapultandosi nella tragedia; per concludersi con una beffa e una vendetta. E' un piatto che risulta indigesto, proprio perché sembra di aver visto tante cose banali potenzialmente "nuove" senza aver avuto il tempo di assaporarle, e questo calcolato desiderio di irrisolto (nonostante tutto, ma proprio tutto, si risolva, in termini di trama) forse era negli intenti della Moorehouse, o forse, ed è più probabile che sia così, è il risultato di un lavoro frettoloso che non riesce ad elevarsi a teoria e rimane barzelletta.
Certo dovremmo essere portati ad apprezzare anche le opere che vengono fuori interessanti involontariamente, cioè quelle che nonostante le ingenuità di fondo appaiono uniche nel loro non-genere. Ma le ingenuità qui non riescono ad essere dissimulate. E' qui che lo spettatore finisce un attimo fuori strada: la Moorhouse sembra credere davvero a quella singola sequenza drammatica, a quella singola sequenza comica, a quella singola sequenza tragica, anche se emotivamente essa non sortisce l'effetto desiderato perché costretta su binari estetici risaputi e andamenti stereotipati (musica al momento giusto, fotografia patinata, sguardi sdolcinati o prevedibilità di sceneggiatura); però, se mettessimo in fila tutti gli stereotipi, magari dentro una cartuccia, e li sparassimo a raffica contro l'attenzione spettatoriale (specie nell'ultima mezz'ora impazzita), consapevoli che in fondo non vogliamo essere presi sul serio, quale sarebbe il risultato? Se riuscissimo a produrre con estetica quasi televisiva (purtroppo!) piccole pillole di illusione, una dopo l'altra - prima, una classica scena romantica; poi, una classica scena divertente; poi, la "classica" tragedia inaspettata - cosa finiremmo per far credere allo spettatore? Dunque il disorientamento non sta tanto nel film in sé, ma nell'interpretazione degli intenti della Moorhouse. La sceneggiatura cambia il suo modo di essere ingenua ogni cinque minuti, o ha idea del quadro d'insieme?
Come già detto prima, però, il film, che di per sé non vuole apparire credibile e non lo è (Kate Winslet è una dea decisamente fuori parte), non riesce a riflettere mai su se stesso, e dunque l'intrattenimento non riesce ad essere affiancato da una soddisfazione intellettuale, che comunque si desidera (vista la mitragliata di situazioni cui la curiosità - intellettuale - viene sottoposta).
Forse i dubbi vengono fugati quando si pensa la seguente conclusione: se avessimo visto tutto il film distribuito in una serie televisiva da 5 stagioni, non saremmo così sconvolti.
E allora ci si arrende al fatto che The Dressmaker è un esempio di inattesa, notevolissima, mediocrità.
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