Regia di Levan Gabriadze vedi scheda film
Chi la fa, l'aspetti
Lo scopo dell’ultimo promettente successo al botteghino della Blumhouse [casa di produzione u.s.a. che sforna horror, horrorini e horroracci a ripetizione] è ‘immergersi’ in una situazione-tipo del nostro presente telematico, per esempio, negli umori (marci) di uno dei social network più popolari a livello mondiale (uno a caso, facebook, chissà se Zuckerberg ha preteso le royalties) e restituirne fedelmente l’aria o, forse è meglio dire, il lezzo che tira.
Magari, coltivando la speranza o più sfacciatamente ambendo ad occupare un posto d’onore tra quelle storie (filmiche) di paura che hanno creato icone inconfondibili e memorabili, ognuna ‘incastrata’ in una specifica collocazione per cui è stata pensata. L’assassino dei campi estivi, quello che uccide rigorosamente nella notte delle streghe e quello che lo fa solo nei sogni, quello che agisce per una buona causa e quello che fa delle sue vittime un lauto pasto per sé e per tutta la famiglia.
Unfriended mira a istituire una nuova figura leggendaria nel cinema dell’orrore, il vendicatore del web, colui che in vita ha finito con l’ammazzarsi per essere morto socialmente, il quale farà piazza pulita dei suoi ‘amici’, che proprio tanto amici non sono stati.
Uno spirito, un fantasma (in perfetto sile Blumhouse), un’entità alimentata dalla rete ma che, nel momento di uccidere l’esclusiva cerchia dei Giuda, si materializzerebbe per provocarne il decesso, apparentemente un suicidio. Secondo la logica.
O morte naturale, perché no. E la logica già scricchiola.
Salta fuori anche un trapano (direttamente dalla locandina di Hostel), e le modalità con cui viene utilizzato mandano la logica a farsi benedire.
(Gravi) Incongruenze che capitano.
Così, ogni volta che tutti noi accederemo al nostro profilo social, di certo, ad aspettarci sarà un brivido lungo la schiena se ci siamo macchiati di cose molto cattive.
L’idea non è malvagia, basti pensare a come l’horror riesca sempre a parlarci del nostro contemporaneo, a rendere tangibili le nostre irrazionali paure, a metterci innanzi al nostro lato più oscuro, a mostrarci il mostro che così bene nascondiamo dentro.
Ma non è nemmeno una primizia, già in passato il genere ha sfornato creature dell’etere assetate di sangue, il più recente (almeno per l’Italia al cinema) è Smiley, autocandidatosi senza consensi al titolo di serial killer delle università yankee.
Unfriended strutturalmente può dirsi interessante: una sorta di lungo piano sequenza riproduce per tutta la durata del film la schermata di un computer aperto su skype per videochattare.
Per quasi tutto il tempo osserviamo rinchiuse in appositi riquadri (a mò di split screen) le facce (spesso deformate dalla distanza ravvicinata all’obiettivo) dei 6 giovinastri impegnati nel rituale cazzeggio quotidiano in rete, che di lì a poco si trasformerà in una sorta di confessionale delle peggiori azioni che ognuno di loro ha compiuto ai danni degli altri cari ‘amici’ connessi.
E, naturalmente, in un teatro di mattanza.
L’aspetto allettante di un prodotto come Unfriended era quello di capire in che misura e come si sarebbe mosso il regista all’interno di un quadro rigido -la schermata del web-, un perimetro circoscritto oltre il quale non è possibile spingersi. A quali espedienti di natura visiva e di scrittura sarebbe ricorso per evitare che la monotonia dell’immagine fissa spalancasse le porte della noia soporifera o, comunque, facesse scemare l’attenzione iniziale.
Ebbene, se la sceneggiatura, pur non brillando in originalità, propone una soluzione piuttosto accattivante che polverizza i tempi morti (tutta la prima parte) ed entra nel vivo della faccenda, sotto il profilo tecnico non accade nulla di rilevante.
Non un guizzo registico che valga la pena ricordare. Forse, forse, la soggettiva da una grata nel muro…
ma in fondo sono inezie.
Come i continui difetti di connessione riprodotti alla perfezione, affinché l’effetto finale sia di elevata verosimiglianza e il vedo/non vedo, che dovrebbe spiazzare e disorientare, domini incontrastato.
La faccenda, poi, altro non è che la conta dei morti.
Perché, alla fine, Unfriended è lo slasher di una volta declinato secondo gli usi e costumi del nostro presente.
Poco ci importa, ma soprattutto perché poco importa al film stesso, delle vite, reali e virtuali, di questi ragazzotti degeneri entro i limiti della nuova normalità che iniziano ad azzannarsi alla gola, metaforicamente parlando, quando i nodi cominciano a venire al pettine.
Una risatina sadica ce la facciamo pure, questa ipocrisia di finti sorrisi ed abbracci in stile selfie finalmente è spazzata via.
Tirate le somme, quello che veramente aspettiamo, che inoltre è l’unica cosa che ancora resta e che dà senso al film, è l’inizio della fine (e sue dinamiche).
Puntuale come un orologio svizzero e senza troppe richieste insistenti.
Purtroppo, senza mordente.
Il piatto forte di un menu insipido si rivela una minestrina appena riscaldata.
E allora, ecco, che ad avere la meglio sulla forma filmica, immaginato come l’elemento potenzialmente più interessante (un po’ come era capitato con The Blair Witch Project), sono le riflessioni sulla deriva morale di tanta gioventù cresciuta a pane e internet, su cui non si può obiettare, per carità, ma quanto saranno veramente efficaci in tempi così cinici e smaliziati da scuoterci nel profondo?
Unfriended sa più di furbata che di opera socialmente utile.
La storia che illustra costituisce certamente un solido aggancio con la realtà che viviamo quotidianamente, forte quanto basta per richiamare folle di giovani che vivono il web come una loro seconda casa.
Ma è sufficiente perché scatti il "fenomeno virale"?
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