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Cobain: Montage of Heck

Regia di Brett Morgen vedi scheda film

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La recensione su Cobain: Montage of Heck

di amandagriss
7 stelle

 

"... dive! dive! dive!

dive on me..."

 

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Vedere il film documentario su Kurt Cobain, leader del gruppo punk rock dei Nirvana e indiscussa icona del fenomeno grunge ---termine utilizzato per definire il fermento musicale che dalla seconda metà degli anni ’80 e parte dei ’90 interessò l’area nord occidentale degli Stati Uniti, concentrandosi sulla città di Seattle; per etichettare (di comodo) un nuovo genere musicale che effettivo genere non è viste le sue molteplici influenze e contaminazioni, dal rock seventies al punk, all’hardcore, al sottobosco underground (garage rock, noise), al rock psichedelico---

è tuffarsi nel passato, è riaprire un album di foto di famiglia che non sfogliavamo da tempo e ritrovarci a sentire scorrere un brivido lungo la schiena per l’emozione che inevitabilmente ci nasce dentro.

Tutto come ce lo ricordavamo, tutto come avevamo visto (dalla tv), letto (dai giornali specializzati e non), ascoltato dalla radio e dallo stereo, inseparabile amico di indimenticabili pomeriggi adolescenziali.

Le immagini di Montage of heck scorrono veloci sullo schermo, alternando momenti inediti, animazione creata ad hoc, a fare da supporto visivo alle audiocassette che il giovane Kurt registrava chiuso nella sua stanza e ad altri (la maggior parte) che non possiamo non riconoscere (soprattutto per chi ha seguito in tempo reale l’infuocato trio di Seattle e dintorni).

E non ci pare vero vederle lì, tutte insieme, così ben accorpate, a strutturare quello che è un denso collage di foto, interviste, performances dal vivo, backstage dei videoclip e appunti, disegni, testi di canzoni scritti a mano che prendono vita grazie ad un intelligente lavoro di computer grafica.

Una nutrita documentazione, dunque, che all’epoca --nell’era preinternet per tutti, dove l’accesso di informazioni non è un problema per nessuno-- era arduo accaparrarsi e rappresentava un motivo d’orgoglio per chi riusciva a visionarla o a venirne in possesso (per mezzo di libercoli, registrazioni su vhs, bootlegs, riviste straniere).

Con la complicità dell’emittente televisiva MTV assurta a sacro graal di tutti quei ragazzi innamorati della musica.

Così testiamo nuovamente quanto sia devastante l’impatto con la forza dirompente del rock suonato dai Nirvana, autentico, catartico, selvaggio, arrabbiato, feroce, irriverente, disperato, isterico, veloce e pesante, depresso e sussurrato, con le sue linee di basso che s’insinuano prepotentemente sottopelle e le sue chitarre frastagliate, i ritornelli orecchiabili misti a collassi acustici, le accattivanti sonorità grezze e le armonie (apparentemente) sgraziate che un bel giorno ci folgorarono in pieno.

E riconosciamo quella voce, un urlo roco e lancinante, forse una richiesta d’aiuto, forse il bisogno di liberarsi dai propri terribili, indomabili demoni.

Magari un modo per ribellarsi, per gridare la propria inadeguatezza al mondo ed al sistema che chiamiamo vita, la maniera, l’unica, di dichiararsi ‘contro’.

Ed eccolo lì Kurt Cobain, che ritroviamo come se lo avessimo lasciato (o lui avesse lasciato noi) appena il giorno prima, l’eterno ragazzo inquieto dalla zazzera bionda, bello come un angelo - “più bello di Brad Pitt” -, magro come un chiodo, vestito a strati, col golfino infeltrito, il pigiama di flanella, le larghe camicie indossate solitamente dai taglialegna, i jeans strappati, e i dolori allo stomaco che non gli danno tregua, il desiderio misto alla paura di sentirsi un giorno così felice ed appagato da rimanere prosciugato dei propri fortissimi sconvolgimenti interiori, da sempre fattore scatenante della sua creatività.

Nella musica come nei dipinti, e in quell’utilizzo ricorrente di vecchie bambole e di modellini anatomici, feti, uteri.

Quasi (o senza il quasi) un’ossessione.

E il futuro, una grossa incognita sulla sua arte e nel privato.

Accanto all’amata Courtney e alla loro figlia Frances Bean.

 

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E l’eroina, la sua seconda, inseparabile compagna di vita.

 

Questo docufilm, prodotto da Frances oggi ventenne, ci riporta all’atmosfera che aleggiava in quegli anni di difficile transizione, tra il sogno infranto degli ’80 e la disillusione dei ’90, a rivivere attraverso la musica dei Nirvana lo smarrimento di un’intera generazione consapevolmente sconfitta in partenza eppure tanto affamata di utopie.

Riuscendo a farci provare gli umori, persino gli odori e i sapori (lo sporco, il sudore, la fatica adrenalinica del palco) di un momento storico -per il rock’n roll- che intuivamo magico, sensazionale, irripetibile, sicuramente da sommare a quelli unici e altrettanto irripetibili del passato più recente e remoto; un periodo che il nostro oggi pare leggere e decodificare come una dimensione aliena lontanissima, una sorta di bolla temporale (dis)persa per sempre nel bianco e nero che avvolge e colora tutte le leggende.

Il lavoro del regista Brett Morgen, autorizzato da una Courtney Love per niente eccessiva, invadente e accentratrice come veniva dipinta (e appariva) negli anni della relazione con Kurt, consapevole dei suoi folli trascorsi (compresi quelli successivi alla morte del marito), capace adesso di guardare dalla giusta prospettiva a quel periodo di croce e delizia, vuole essere un lascito sincero e sentito a quei ragazzi, oggi degli adulti, che una mattina d’aprile si ritrovarono ancora una volta soli e senza più voce, e per le generazioni a venire un invito a conoscere più da vicino chi fosse quel triste ragazzo ‘trasandato’ che non voleva essere una rockstar, e quale musica gli piacesse suonare.

Possiamo considerare Montage of heck una commovente integrazione alla splendida e dettagliata biografia Come as you are, datata 1993, del gruppo e di Kurt realizzata dal giornalista scrittore Michael Azerrad.

Che gioca di sottrazione, che tiene fuori tutto il resto.

Quello che è stato fatto e detto dopo il suicidio: i complotti e le congiure che avrebbe ordito Courtney la mantide, i pettegolezzi di amici e parenti, l’eredità economica dei Nirvana da spartire in tribunale, gli accesi scontri con l’allora batterista del gruppo, oggi frontman dei Foo Fighters, Dave Grohl.

Come a dire, “è questo il Kurt da ricordare, non c’è null’altro, nessuna rivelazione sconvolgente, nessun scheletro nell’armadio, niente di niente. Punto."

Per lavare via il troppo veleno, per evitare di cadere nella trappola della retorica maledettista che non di rado pervade la storia delle rockstar morte prematuramente (e quasi tutte a 27 anni).

Montage of heck vuole concentrarsi sull’uomo e sull’artista, sul suo genio illuminante e il suo distruttivo lato oscuro.

In fondo, a pensarci, è la scelta più giusta, perché a distanza di vent’anni dei Nirvana ci resta la loro musica, ancora così necessaria, un uragano emozionale che non vuole saperne di placarsi, risultando ancora l’ideale colonna sonora (insieme ad altre poche ponderate scelte) dei nostri intimi tormenti.

Resta Kurt, restano il suo sorriso, i suoi capelli spettinati, i suoi occhi azzurri, grandi e profondi.

Il suo canto. Il suo urlo. Il suo lamento.

 

 

 

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