Regia di Abraham Polonsky vedi scheda film
Corri ragazzo, corri!! Nessuno può sottrarti al tuo destino. Polonsky come Willie, insomma: due “cacce” analogamente spietate e un assunto complessivo che è un vero e proprio atto di accusa verso le storture violente di una società americana,corrotta e corruttibile.
“Tell them Willie Boy is here” è il film con il quale Polonsky tornò prepotentemente alla ribalta dopo oltre un ventennio di forzata inattività (a causa delle epurazioni maccartiste che avevano stroncato prematuramente la sua promettente carriera in ascesa) ed è certamente una pellicola di forte impatto empatico, che conferma in pieno il talento corrosivo e il coraggio delle idee che già avevano caratterizzato la sua opera prima (“Le forze del male” del 1949, con il quale il regista in un certo senso aveva utilizzato, inserendolo in un canovaccio tipicamente noir, un archetipo che si rifà al mito di Caino e Abele riletto però in chiave brechtiano/marxista – per farne in pratica, con la sua “interpretazione” parallela quasi metaforica – una specie di saggio sociopolitico sulla realtà capitalista del sistema americano capace di far emergere tutte le negatività perverse di quel “modello” in ascesa che criticamente si intendeva mettere in discussione). Questo western adulto, che uscì in un momento particolarmente fecondo per il genere, poiché il 1969 è l’anno in cui videro la luce anche “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah, “La notte dell’agguato” di Mulligan; “Butch Cassidy” e “Il grinta”, è a sua volta un film di forte connotazione politica (finalmente gli è concesso nuovamente il diritto di poter liberamente esporre le proprie idee, e lui lo fa con prepotente forza dirompente, rispondendo a una necessità che è molto di più di un bisogno). In ogni caso, resta quello che meglio di ogni altro mette a fuoco (centralizza) il problema dei nativi d’America, che storicizza “la tragedia” relativa al genocidio di quella popolazione stanziale: il necessario revisionismo critico su questo tema era già da tempo in atto, ma qui l’identificazione del “vero” nocciolo della questione è straordinariamente pregnante e tale da chiarirne in modo decisivo la portata e il senso, fornendone davvero una visione tanto conclusiva, quanto imprescindibile. Potremmo definirlo allora un western impattante e moderno, davvero ammirevole per chiarezza ed onestà “idealistica”, che riprende e amplifica un discorso che il regista era stato costretto a lasciare incompiuto, (per le sue note vicissitudini ) ancora una volta incentrato sull’avidità dell’arrivismo sociale che è poi il motore primario che porta avanti proprio la struttura consumistica del capitalismo rampante. La storia è ambientata nel 1909, quando la “conquista” , la decimazione e la colonizzazione dei superstiti, era già stata portata a termine (perpetrata) con un “perfezionismo” che non lasciava alcun margine dispersivo all’insuccesso e ancor meno forse a una “resistenza attiva” di contrapposizione. Gli indiani residui erano ormai rinchiusi nelle riserve, quei luoghi desolati e desolanti, che erano stati loro assegnati quale “massima concessione” di libertà, confinati in un meccanismo ben oliato e senza crepe, fra sceriffi che assolvevano il compito di “tutelarli” e insegnanti filantropiche che invece ricoprivano il ruolo della “assistenza” pratica, chiamate cioè a “rispondere” alle necessità della sopravvivenza quotidiana grazie alle loro “specializzazioni” antropologiche. Il sistema riservava quindi solo minimali fette di integrazione alternativa magari anche ipotizzabile, ma al prezzo di una rinuncia ideologica che passava comunaque attraverso l’accettazione e l’adeguamento al “modello” di quella nuova America di importazione che aveva assunto il ruolo dominante e che pretendeva di dettare “leggi” e prospettive. Potremmo definirle in pratica, “le due facce del colonialismo”: quella rigida della “normalizzazione” contrapposta all’altra, certamente più blanda, ma non per questo meno tragica, dell’integrazione forzata concessa solo a coloro che si sono “arresi”, dichiarandosi così disponibili a rinunciare alla loro essenza per inchinarsi ai “voleri” dei nuovi padroni (una modalità che non è poi molto mutata negli anni, basta analizzare cosa viene “preteso” anche qui in Italia dalle diversità etniche di importazione… solo che lì il problema era ancora più terribile e coercitivo, poiché si trattava di imposizioni rivendicate dagli usurpanti e perpetrate sugli usurpati, che erano invece quelli che avrebbero avuto il diritto di dettare in prima persona le regole della loro terra). In qualche modo comunque i due protagonisti (il bianco e il nativo) sono in pratica complementari e portatori di un comune destino, che è proprio quello dell’impossibilità effettiva di una vera integrazione dentro l’ingranaggio coercitivo delle regole codificate imposte dall’alto. Willie, l’indiano duro e ribelle, non solo non accetta di vivere in riserva, ma non intende nemmeno adattarsi a sopravvivere in sintonia col mondo dei colonizzatori e a scendere a compromessi per questo. A sua volta lo sceriffo “illuminato” (Redford, e non a caso il suo personaggio ha il none di Cooper….. una “scelta” non casuale che fa riflettere., perché diventa una connotazione precisa del personaggio) se da una parte non intende continuare a seguire le orme di feroce cacciatore di pellirosse lasciate dal padre (eredità scomoda e rifiutata) dall’altra non è nemmeno così disponibile per voltare del tutto le spalle al mondo in cui è cresciuto e nel quale ritiene necessario continuare a vivere. L’ingranaggio del suo mestiere di difensore della legge rimane prevaricante allora, ma al tempo stesso riesce anche a “vedere” le ragioni dell’altro, di Willie, a sua volta riluttante oggetto (e vittima) di tutti i pregiudizi anche razziali della popolazione dalla pelle bianca (e sarà proprio per questo “razzismo” costretto a rapire la ragazza che ama, uccidendone il padre intollerante e settario, che segnerà l’inizio di quella sadica caccia all’uomo) e questo è sufficiente a creare una specie di sotterraneo conflitto interiore. Lo sceriffo è dunque l’unico a non essere del tutto schiavo dei pregiudizi, vede e “sa”, è raziocinante e Willie e la sua ragazza sono lì a dimostragli che quello che lui fa, che considera il suo dovere, “non è poi davvero quella che potrebbe essere definita la cosa giusta”, è semplicemente ciò che viene predicato e preteso dalle leggi dello stato in formazione, ciò che si rende necessario per la definitiva, rassicurante costruzione “consolidata” della nazione, ma è un sopruso evidente ed umiliante, una “usurpazione” pretenziosa e arrogante. Differenziato dalla diversa origine di “classe” ma non insensibile, potrebbe essere l’anello debole della catena, ma avrebbe bisogno di “spinte propulsive” che non ha. E non troverà purtroppo nemmeno la sponda necessaria per “rimbalzare” nella dottoressa/insegnante alla quale è affidato il compito governativo della cura della riserva e dei loro abitanti, la missionaria di stato, insomma che avrebbe il compito istituzionale per “osare” davvero (che è al tempo stesso anche la segreta amante dello sceriffo e che quindi potrebbe avere più di una freccia al suo arco),chiamata a rappresentare, nell’economia generale della storia, un personaggio davvero controverso e molto interessante, sfaccettato e contraddittorio, che è poi quello della donna intelligente e ben intenzionata, certamente “di sani principi” e di altrettante “buone intenzioni” si direbbe (quelle che lastricano l’inferno, comunque) ma così dura, così infarcita di regole e di perbenismo, così profondamente e meschinamente “borghese”, da incarnare principalmente il ruolo di una burocrate ligia al “dovere” (anche arrivista), superfiale e un po’ isterica (stupenda la scena “reattiva” quando “cede” all’impulso del “prepotente” richiamo sessuale, davvero uno dei momenti più originali, “forti” e chiarificatori di tutto il film). Potremmo definirla come l’incarnazione del puritanesimo, insomma (e forse è proprio questa peculiarità a farla diventare a sua volta un personaggio fortemente emblematico). Ai due protagonisti maschili corrispondono infatti specularmente due analogamente differenti contrapposizioni femminili: la dottoressa emancipata ma “dubitativa”, da un lato; la remissiva mezzosangue Lola (la ragazza di Willie) dall’altra. Tutto diventa allora “frenetico” e inevitabile, un “ingranaggio” lento e avvolgente che una volta messo in moto nessuno sarà più in grado di fermare: non è consentito “accettare “ la fuga dei due innamorati, lasciarli andare incontro al loro destino come sarebbe giusto e necessario (e nessuno vuol farlo davvero), non solo perché lui si è macchiato del peso di un delitto, perché sono proprio le circostanze a remare contro a far sì che il fatto diventi catartico (l’arrivo in zona del presidente Taft). La fuga, di per sé privata e personale, diventerà un fatto sociale, assumerà per questo valenze improprie, esonderà così tanto fino ad essere interpretata principalmente come una minaccia generalizzata diventerà l’immagine percettiva di un pericolo (non reale, ma comunque non per questo meno avvertito). La risposta non si farà attendere, e sarà una controffensiva spietata che ha quasi il sapore della “vendetta”, perché le regole assegnano i ruoli, si sa già chi saranno i cacciatori e quali le prede, sono noti persino i percorsi e la fine, e la conclusione della caccia, nonostante il buon senso di Cooper, lo sceriffo, si confermerà davvero in ogni caso straziante: la ragazza muore (si uccide, decidiamo noi, perché il regista su questo punto resta ambiguo, lascia tracce, ma non certezze assolute) per consentire al suo uomo di continuare a fuggire verso il suo sogno di libertà, ma noi sappiamo che non sarà sufficiente il suo sacrificio, perché per i “perdenti”, per i perseguitati, non c’è mai scampo. E allora quasi come in una tragedia elisabettiana, tutto precipiterà ancora nel sangue e anche Willie si ucciderà, poiché continuare da solo non avrebbe senso né ragioni. Ma si ammazza semplicemente come può uccidersi un indiano: lasciando che ciò accada per mano di un altro, e sarà Cooper colui che sarà costretto a compierem il gesto estremo dell’uccisione, un atto che lo porterà a diventare un altro “carnefice” bianco, di nuovo parificato a tutti gli altri. Ed è nei suoi occhi, che cogliamo il lampo che ci permette di leggere l’approfondirsi del dubbio, anche se a questo punto, con le mani a sua volta sporche di sangue, non ci potrà ormai più essere nemmeno da quella parte una vera e propria presa di coscienza criticamente costruttiva… Dunque allora per i non integrati, per coloro che non chiudono gli occhi o non vogliono arrendersi, rimane solo la scelta fra la morte e la tragedia personale, ed è in ogni caso una evidente sciagura. Polonsky, con questa pellicola, rilegge, sintetizza, prospetta, ma va ancora oltre, facendo diventare la storia anche la lettura cricca e consapevole del proprio percorso di sofferenza: “non è un film sugli indiani, ma un film su me stesso” ebbe a dichiarare in una intervista, e che sia veritiera certezza, lo si avverte dai ritmi, dalla struttura lenta e cadenzata delle rincorse, dai sobbalzi interiori di quella fuga impossibile che ci costringe ad assistere consapevoli alla definitiva messa a morte, violenta e inchiodante, dell’americano per eccellenza: l’indiano (ed è in filigrana molto di più di questo, perché l’atto assume i connotati privati e sociali dell’uomo che si ribella e denuncia l’ingiustizia ricevuta, rappresentando con cruda passione il dramma dell’uno che diventa implicitamente anche quello di se stesso). Pellicola lucidamente critica dunque (ed anche amara metafora penetrante di un abominio: Polonsky e Willie, due “cacce” analogamente spietate e irresponsabili che fanno diventare l’assunto un vero e proprio atto di accusa verso le storture e la violenza della società americana, quasi una accorata riflessione sulla impossibilità di mantenere viva una innocenza “personale”, all’interno di una società corrotta e corruttibile come quella che ci rappresenta e dentro la quale siamo costretti a vivere… E allora assume il senso di una ulteriore impossibile ribellione rabbiosa proprio la frase conclusiva con la quale Cooper chiude la questione quando il cacciatore di taglie Calvert gli chiede ragione del perché lui ha dato il permesso di bruciare il cadavere di Willie, secondo i riti della sua gente , un fatto che toglie lustro e visibilità alla’avvenimento, “perché così non resta niente da esporre ed esibire ai giornalisti”. Alla precisa domanda: “Che gli diciamo a quelli?” lo sceriffo risponde amaro e lapidario: “ digli che abbiamo finito coi souvenir” e non c’è più davvero niente da aggiungere. Al di là del valore soprattutto “morale”, il film ha anche il pregio di essere stato girato con una tecnica formidabile, mobile e moderna come non si sarebbe potuto immaginare possibile, vista la lunga assenza dal set di Polonsky (straordinarie le riprese in movimento dei protagonisti, gli scoppi improvvisi di dinamismo che spesso infuocano il procedere delle azioni, la coerenza stilistica che niente concede a possibili formalismi manierati, complice l’eccellente contributo della fotografia del sempre ottimo Conrad L: Hall). Ma c’è un altro elemento vincente che è indispensabile mettere in primo piano. Mi riferisco all’originale, insolito, magmatico commento musicale che è quasi avanguardia: ossessivo, penetrante, metallico e dissonante e che diventa a sua volta “azione” vera e propria soprattutto nelle sequenze della fuga e dell’inseguimento scandita e “personalizzata” proprio dal la musica che fa percepire la dinamicità compulsiva della corsa, l’ansiogena preoccupazione di essere raggiunti, il disagio urlato della ribellione… uno score insomma che è meravigliosamente attinente e che “vive” e si anima in perfetta simbiosi con le azioni e i ritmi delle immagini, che ha quel senso compiuto di “capolavoro” sonoro ma solo all’interno dell’opera immagino, e che avvertiamo grandioso fin dalle prime “dissonanze” stridenti che accompagnano i titoli di testa (Dave Grusin è il compositore al quale va riconosciuto il merito di essere riuscito di trasferisce alla musica il pathos delle azioni). E anche gli interpeti sono efficaci, tutti indistintamente… Barry Sullivan, Katharine Ross (attrice simbolo della cosiddetta “Woodstock generation” che nemmeno questa volta tradisce le aspettative) splendida e splendente come al solito, il grintoso Robert Blake che sembra essere nato dentro il personaggio… ma sopra tutti si elevano certamente Robert Redford (una “identificazione” totalizzante e sfumata la sua, non solo con il personaggio, ma anche con l’idea di ciò che rappresenta) e Susan Clark, la dura, volitiva, coercibile dottoressa a capo della riserva, tutta apparenza e introversione, una attrice “prepotente” che avrebbe meritato molto di più di quanto Hollywood non sia stato disponibile a concederle e che qui riesce ad esprimere tutte le sfaccettature variegate e contraddittorie di una personalità complessa e straordinariamente attuale,ha caratteristiche anche fisiche perfettamente conformi e possiede gli scatti e i guizzi giusti della leonessa di rango (la scena del cedimento isterico sta lì a dimostrarlo ampiamente ed è esplicativa delle sue eccelse qualità).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta