Regia di Abraham Polonsky vedi scheda film
Il maccartismo rappresenta una delle pagine più controverse, buie e barbariche dell’intera storia degli Stati Uniti d’America . Una aberrazione ideologica, che ha fatto molte vittime innocenti anche illustri, colpevoli semplicemente di credere nelle proprie idee e di voler rimare fedeli ad esse ad ogni costo e indisponibili ad assumere il ruolo di “delatori” richiesto dagli accusatori, indispensabile viatico per salvarsi il cosiddetto “deretano”.
Abram Polonsky è sicuramente uno dei nomi che ha pagato più salatamente il prezzo della sua coerenza, subendo per questo una “epurazione” che è durata più o meno un ventennio, e che gli è costata praticamente la carriera.
Sospettato di intendersela con i comunisti, non ha infatti mai ceduto alle tentazioni di sottomettersi ad un auto–da-fé pubblico e di denunciare amici e colleghi che invece altri più fragilmente deboli di lui assecondarono, entrando poi in drammatico conflitto con le proprie coscienze. Per questa sua caparbia ostinazione (che va ovviamente ascritta a suo merito), fu inserito nelle liste nere di Holliwood e messo così in prolungata quarantena.
Non credo sia stato facile per lui anche semplicemente sopravvivere, ma strinse la cinghia e si arrangiò con quel che era possibile fare, affrontando a testa alta e senza mai piegarsi, la sorte comune di tutti gli altri esiliati in patria che avevano fatto scelte di coerenza analoghe alle sue. Dell’esperienza tragica vissuta in quegli anni non solo da lui, ma da tutto il paese, ne fornì una testimonianza diretta in un romanzo che è un vero e proprio atto,d’accusa:The season of fear. (e credo che il titolo sia già esplicativo senza bisogno di aggiungere altro).
Chi ha vissuto (o conosciuto a posteriori) la straordinaria fioritura postbellica del cinema americano, ricorderà che Polonsky era stato l’ispirato sceneggiatore di uno dei migliori film di Robert Rossen, Anima e corpo, e che la sua interessante opera prima in qualità di regista (a lungo sarebbe rimasta tale) è il carismatico Le forze del male (interpretato per altro da un’altra vittima illustre del maccartismo che praticamente ci rimise la pelle come John Garfield). Doveva seguire una trasposizione cinematografica di Mario e il mago di Thomas Mann, allorché fu convocato dalla commissione di inchiesta per le attività anti-americane che lo mise automaticamente e ingiustamente fuori gioco, impedendogli non solo di portare a compimento il progetto, ma anche di continuare il suo lavoro di sceneggiatore..
Gli anni hanno reso giustizia ai perseguitati, e i sopravvissuti gradualmente hanno potuto riappropriarsi della propria professione, prima mimetizzandosi dietro pseudonimi (soprattutto gli sceneggiatori) e poi – finalmente – a viso aperto. Anche Polonsky ha potuto farlo, ma solo nel 1968, realizzando proprio in quell’anno per conto della Universal questo Ucciderò Willie Kid, western un po’ anomalo e con profonde venature sociologiche, sua effettiva opera seconda, che ne conferma però in pieno il talento, nonostante la lunga assenza che avrebbe potuto arrugginirlo un poco..
Ucciderò Willie Kid, che ha per protagonista un indiano chiamato Renard-che corre, detto Willie Boy, si rifà a una vicenda realmente accaduta. L’uomo, nel 1909, era abbastanza famoso per le sue attività sportive (giocava con ottimi risultati in una squadra di baseball). Entro però suo malgrado nelle cronache nere della California per un fatto di sangue: innamorato di una ragazza, ne uccise il padre che osteggiava la relazione, e fu per questo costretto, per sottrarsi alla polizia, a fuggire e a darsi alla macchia, diventando così agli occhi degli indiani chiusi nelle riserve, un miticizzato simbolo di libertà e indipendenza.
In quei giorni, il presidente Taft stava compiendo un giro elettorale nella zona, e si sparse così la voce che, alla testa di un pugno di pellerossa, Willie avrebbe capeggiato una rivolta con il proposito di giustiziare il primo cittadino della Nazione. Braccato da ogni parte, Willie, come era prevedibile, ebbe la peggio e certamente la presenza del presidente Taft nella zona dove si nascondeva, fu determinante per la sua sorte infausta.
Polonsky, con il suo film, ha riesumato le sventure di Willie con quel tanto di libertà consentita dalla creatività della rappresentazione scenica, al fine di poter dinamicizzare meglio gli avvenimenti, introducendovi proprio a tale scopo, il personaggio di uno sceriffo mezzo sangue, combattuto fra il dovere e l’ammirazione segreta nei riguardi di colui che è chiamato a stanare e catturare, ma rimanendo per il resto, sostanzialmente fedele ai fatti della cronaca.
E’ facilmente comprensibile immaginare quale sia stato il tema che ha sedotto il regista, che non è poi inedito nella cinematografia americana, e si esplicita nel senso di colpa (così come è accaduto con il Vietnam) che arrovella una società rea di aver operato un vero e proprio genocidio di massa, e di essersi comportata verso gli indiani alla stregua di una potenza colonialista e imperialista.
Ed è proprio questo particolare senso di colpa difficile da estirpare, che pervade non solo lo sceriffo, ma anche la dottoressa della riserva indiana (una sorta di assistente sociale ante-litteram) che avversa gli speculatori bianchi e gli sfruttatori, ma che è costretta allo stesso tempo ad esercitare il ruolo di “mediatrice” illuminata fra le due razze per cercare il compromesso, che doverosamente assolve senza sentirsi lusingata né appagata per le limitazioni operative comunque imposte dal sistema che semmai determinano in lei una sotterrane frustrazione.
Essa è dunque il “pendant” femminile dello sceriffo Cooper (entrambi, su posizioni ideologicamente analoghe, disprezzano pesantemente i razzisti nostalgici delle guerre di sterminio che ancora ammorbano la società che li circonda, ma è proprio con loro che devono continuare a fare i conti).
L’uno e l’altra, non possono dunque che essere reciprocamente attirati dalle affinità che si riconoscono, verso un rapporto attrattivo quasi sadomasochistico, che infatti non si concluderà tra le lenzuola di un letto, ma che li consumerà invece lentamente, macerandoli n un lacerante stato di contraddizioni irrisolte.
La dottoressa non sarà così di aiuto né a se stessa, né a Willie, così come lo sceriffo, sconfessando il suo sentire profondo, non esiterà alla fine a tacitare i suoi sentimenti e a privilegiare la funzione repressiva che è stato chiamato ad esercitare.
L’uno e l’altra rappresentano dunque velleità riformistiche che assumono la forma di disagi morali e inquietudini profonde proprio per l’incapacità che hanno di onorare fino in fondo le proprie idee e che nei fatti pratici infatti, non li esonerano dal rimanere totalmente rispettosi delle leggi imposte dall’ordine costituito nonostante il loro idealismo di facciata..
Contrariamente a quanto farà la donna e lo sceriffo però, Polonsky non sposa le stesse posizioni frustranti, e pur senza pontificare, ma utilizzando solo la forza delle immagini e delle situazioni, si rifiuta categoricamente di detergere le loro lacrime da coccodrillo e di impantanarsi così in dubbie e tardive autocritiche.
La sua è e rimane quindi una dichiarata solidarietà condivisa con gli oppressi che si identificano nelle vittime della violenza bianca, e naturalmente per quanto siano indiani i protagonisti del film, il regista allude (in)direttamente a tutte le minoranze d’America e del mondo e per esse parteggia con una aderenza quasi amorosa che si rivela e si riversa proprio nella descrizione della riserva Morongo popolato dai residuali Cahuillas.
Per essere un western allora Ucciderò Willie Kid è proprio per tali ragioni che risulta anomalo e insolito (anche se non del tutto solitario nel variegato panorama hollywoodiano del periodo): il suo modo di raccontare non afferra alle viscere lo spettatore, evita tutta la truculenta aggressività effettistica del genere, ma tiene ben salde in mano le redini del progetto e non allenta mai la presa nel tratteggio particolarmente accurato delle psicologie dei personaggi , tutti perfettamente messi a fuoco anche nelle loro contraddizioni, e non attinge mai – rifiutandoli invece categoricamente - a consunti schemi mitologici e folkloristici da altri utilizzati: preferisce affidarsi alla scabra prosa dei fatti, concatenandoli in una logica che associa il carattere sociale e generalizzante del destino riservato a Willie, non solo a quello della sua compagna, ma anche e soprattutto a quello dell’intera sua gente. E il discorso già di per sé eloquente, finisce allora per essere quello di due civiltà e culture che si fronteggiano e non si conciliano, rappresentato da una parte da chi contrabbanda l’ipotetica voglia di una possibile integrazione per la quale i bianchi sembrano all’apparenza volersi prodigare, anche se sempre a loro esclusivo vantaggio, e dall’altra la contrapposizione tutt’altro che rassegnata, del popolo indiano, che si esplicita nel rifiuto consapevole di chi sa che il prezzo da pagare per una integrazione comunque sbilanciata, sarebbe troppo alto (corrisponderebbe alla definitiva rinuncia alla propria identità).
Willie simbolizza così la spontanea resistenza a una (dis)integrazione imposta con mezzi coercitivi e corruttori incapaci di avvicinare, ma che al contrario, alza invece barriere sempre più alte e invalicabili tra le razze e le classi.
Stilisticamente parlando, Polonsky si è riallacciato alla concretezza cronistica dei migliori film americani del dopoguerra, quasi come se raccontasse la storia in diretta, ma senza impantanarsi per questo nella ricerca di insistite verosimiglianze naturalistiche, o di sottomettersi alle regole anche mimetiche di un modello aderente alla corrente del cinema-verità oggettivamente improponibili in questa circostanza.
La forma è comunque ammirevole per l’essenzialità del realismo, la concisione del ritmo e le scansioni sempre più parossistiche dell’inseguimento per altro ben assecondate da una colonna sonora di straordinaria potenza espressiva. Che ne concretizza perfettamente il pathos. Interessante e positivo anche l’impiego di una tavolozza di colori che conferisce al paesaggio naturale una suggestione drammatica fortemente interiorizzata, ma che accresce la veridicità dell’impatto.
Ottime anche le prestazioni degli interpreti, a partire da un credibilissimo Robert Redford (lo sceriffo Cooper) capace di “raccontare” tutti i suoi tormenti interiori. Lo accompagnano, nella fuga e nel viaggio, tutti perfettamente aderenti ai personaggi loro affidati, Robeet Blake (Willie), Katharine Ross, Susan Clark e Barry Sullivan.
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