Regia di Dario Argento vedi scheda film
Sorprendente esordio registico di Dario Argento: un thriller teso, coinvolgente e metacinematorafico, che getta le basi per il futuro cinema dell’autore, ponendo un audace parallelismo tra arte e omicidio e riflettendo sul potere della visione.
Sorprendente opera prima per l’allora trentenne Dario Argento che, dopo una consistente esperienza come critico cinematografico e come soggettista/sceneggiatore, esordisce dietro la macchina da presa quasi per caso (affermò in seguito che non riusciva a trovare il regista giusto per dirigere il film), con quello che è stato erroneamente considerato per molto tempo il capostipite del “giallo all’italiana”. Se la paternità del genere al cineasta romano è stata poi smentita per essere giustamente attribuita a Mario Bava (con titoli come La ragazza che sapeva troppoo Sei donne per l’assassino), bisogna d’altra parte riconoscere che Argento, pur avendo sempre come modello ispiratore l’autore sanremese o il cinema di Alfred Hitchcock, ha l’intraprendenza di delineare un proprio stile personale attraverso una pellicola altamente seminale, che getta le basi per la sua filmografia futura e, soprattutto, ne rivela già le ossessioni: basti pensare al ruolo fondamentale svolto dagli animali, espediente fondamentale per smascherare l’identità dell’assassino, o le mani di quest’ultimo, avvolte nei famigerati guanti di pelle e intente a maneggiare affilati coltelli. La più interessante, però, è la peculiare meticolosità nella messa in scena dell’omicidio: l’atto dell’uccisione, per Argento, non ha soltanto un valore puramente spettacolare o scioccante, ma diviene esso stesso una forma d’arte, e quindi di esibizione, al pari dell’esposizione delle sculture nella galleria d’arte dove avviene il tentato omicidio a inizio film. Così come l’omicidio può assumere una valenza artistica, l’arte stessa può uccidere o indurre una persona a compiere tale azione, e il regista romano lo ribadisce più volte nel corso della pellicola, come nel confronto finale con l’assassino, dove il protagonista rischia di essere schiacciato da una scultura, ma soprattutto nella stravagante scena a casa del pittore Berto Consalvi (un bravissimo Mario Adorf), perfetta sintesi del parallelismo tra i due elementi in cui viene mostrato il dipinto naif che raffigura l’aggressione di una ragazza. Ulteriore elemento chiave della pellicola, che diventerà un marchio di fabbrica nella poetica dell’autore, è l’espediente narrativo del “particolare che sfugge”, su cui è imperniata l’intera vicenda e da cui scaturisce un secondo sottotesto: esso, infatti, non è solamente un trucchetto per sorprendere lo spettatore nel finale, ma è funzionale a portare avanti una riflessione sul potere della visione e sulla percezione soggettiva che ognuno di noi ha della realtà. Emblematica è, in questo senso, la scena iniziale nella galleria d’arte, dove il protagonista, bloccato nell’intercapedine tra due vetrate insonorizzate e impossibilitato a intervenire sul tentato omicidio in corso, non può far altro che affidarsi alla propria vista per tentare di comprendere quanto sta accadendo: ma l’apparenza inganna, e ciò che metterà in difficoltà l’uomo sarà proprio la sua interpretazione distorta e imprecisa della realtà oggettiva, che potrà decodificare solamente grazie a un’immagine impressa nella sua memoria. La soluzione chiarificatrice quindi non è più rappresentata da un resoconto finale (come era da tradizione in tutti i gialli in stile Agatha Christie), ma è prettamente visiva, quindi interamente affidata al mezzo filmico. E poco importa se la struttura narrativa è minata da qualche buco logico o incongruenza: l’interesse primario di Dario Argento è quello di giocare con le emozioni dello spettatore, sconvolgendolo, divertendolo, incalzandolo, e soprattutto ricordandogli la natura ingannevole e illusoria del cinema. Primo capitolo di un’ideale “trilogia degli animali”, a cui seguiranno Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, entrambi del 1971. Voto: 8,5
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