Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Sta già tutto nel titolo: quella a cui assistiamo è la storia, sconnessa e per nulla consolatoria, della grande catena alimentare che è la vita, in cui lo squalo mangia la cernia, il gatto mangia il topo ed il falco mangia il passerotto. Possono arrivare tutti gli idealisti del mondo a cantare canzoni sulla fratellanza ed a spingere masse di migliaia di persone a credere che sia possibile costruire una società scevra dall'aggressione reciproca, ma presto o tardi la realtà torna a bussare alla porta, magari proprio quando il predatore sta già affondando i denti nella carne. Perché, come imparano frate Ciccillo e frate Ninetto, è tendenza naturale delle cose che il forte schiacci il debole. E per quanto uno possa stare inginocchiato per un anno intero in mezzo alle intemperie per tentare di smussare i bordi che dividono una classe, un gruppo, un'etnia, addirittura una specie, questi torneranno a riformarsi altrove, ghettizzando gli uni ed innalzando gli altri. I due uomini di chiesa si trovano a rimbalzare sulla pacata buona fede di San Francesco, mentre il corvo ha dovuto fare i conti con Marx, che fra un sogno di piena automazione ed un altro sull'abolizione dei confini nazionali, aveva teorizzato il modello mafioso di costruzione di qualunque agglomerato umano. Totò e Ninetto non sono altro che due rappresentanti di questa generica dimensione antropologica: ignoranti ed inetti, ma con quel tanto di furbizia che basta per tenere la testa fuori dall'acqua e non affogare, infarciti di tutte le inconsapevoli ipocrisie del caso (credenti e puttanieri, spietati nell'esigere soldi dagli altri ma terrorizzati dal potente), che vagano senza meta, gelosi della portata effimera delle loro esistenze. Il corvo è la stereotipizzazione di Pasolini stesso: intellettuale marxista che racconta ai quattro venti la sua buona novella sul progresso dell'umanità (la fine delle guerre, la condivisione della ricchezza, la consapevolezza delle risorse limitate del pianeta), la cui voce da grillo parlante fa da fastidioso sottofondo ai nostri eroi. Ed il cammino procede in questo paesaggio di strade abbandonate e casali mezzi distrutti, in cui ci sono cartelli che indicando in chilometri paesi distanti continenti e vie dedicate a sconosciuti, verso l'incontro di personaggi bislacchi quanto emblematici: la famiglia in cui i figli dormono tutto il giorno ed il padre mangia nidi di rondine (da notare che nel sud-est asiatico tale pratica esiste davvero, venendo considerata ironicamente alta cucina...), la casa del ricco signore abitata da caratteri bunueliani (il domestico che si muove sul carrello, il direttore di un'orchestra invisibile), la banda di circensi che rifila a Totò un anticoncezionale ed altri deliri annessi. Fino a giungere ad una fila ammutolita di persone, alcune piangenti, altre col pugno alzato, raccolta intorno ad una bara: le immagini sono prese dal funerale di Palmiro Togliatti, ma quella massa di individui senza nome non sta rendendo omaggio ad un uomo, bensì alla morte di quel sogno che sin dall'inizio potevamo dare per spacciato. E dulcis in fundo, dopo ore di camminata in cui il corvo ha declamato i suoi ambiziosi pensieri sempre più simili ad un totale delirio, i due decidono di porre fine al più ancestrale dei bisogni fisiologici divorandolo, creando una mistura fra la coscienza di collodiana memoria e l'immagine del cannibalismo sociale da sempre cara a Pasolini: alla fine, gli intellettuali rompiscatole spariscono nel tritacarne della Storia senza che a nessuno importi molto (salvo ricoprirli d'oro quando ormai sono diventati inoffensivi). Una delle opere più sperimentali emerse dal cinema italiano, oscillante tra i il demenziale e lo spaventoso, pieno di idee di messa in scena assolutamente geniali, come i titoli di testa cantati da Domenico Modugno, i disorientanti cambi di velocità e le scelte di casting (l'idolo delle folle Totò e quella faccia da schiaffi di Ninetto Davoli messi in ruoli sostanzialmente negativi). Ma, soprattutto, è una sintesi teorica spietata e di un'attualità disarmante sulla natura antropologica della prevaricazione e sul vantaggio che un'indole violenta ha (e probabilmente avrà sempre) sul buon senso, nonché la definitiva pietra tombale sulla politica come visione romanzesca della realtà, della quale al contempo è praticamente impossibile fare a meno.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta