Regia di Jayro Bustamante vedi scheda film
Il vulcano Pacaya è l'artefice delle fortune e dei drammi di quanti abitano le sue pendici; il dio che fertilizza la terra con lapilli e ceneri che escono dal cratere fumante, regalando al caffè sentori paradisiaci uniti ad un aroma persistente; il demiurgo che può mietere all'improvviso i raccolti con un'improvvisa colata magmatica, procurando la miseria più nera ai numerosi maya legati ai ritmi imposti dalla coltivazione del caffè nelle piantagioni sottostanti. Anche la giovane contadina Maria e la sua famiglia si affidano al vulcano con riti ed offerte tra le lave cineree ormai indurite. Il raccolto è vicino e le donne invocano la clemenza della montagna. Ma ci sono altri motivi per elargire offerte al Dio cristiano e agli spiriti della tradizione millenaria pre-colombiana che hanno stretto un'intesa di non belligeranza vista l'impossibilità di scardinare tradizioni ancestrali e, per contro, la necessità di accontentare il Dio dei conquistadores assetato di conversioni. Maria è stata sedotta da un ragazzino ed ora il frutto nel suo grembo rischia di compromettere il patto siglato dal proprietario della piantagione, Ignacio, che rimasto vedovo, ha deciso di sposare la diciassettenne ragazzina dalla pelle ambrata e levigata. Agli innumerevoli regali condotti in dono, Ignacio porta al padre della ragazza la promessa di poter rimanere nella casa in cui abita con la famiglia e di mantenere il lavoro che richiama numerosi braccianti nel periodo della raccolta ma necessita di una minor numero di poveracci nei mesi successivi. A Maria non resta che invocare, insieme alla madre, il vulcano affinché si riprenda quel feto che un imberbe, incapace di mantenere le promesse, le ha piantato nell'utero prima di mollarla al proprio destino. Ma non bastano intrugli disgustosi e impiastri con rocce laviche da applicare sulla pancia della ragazzina durante le abluzioni. Quel feto è tenace e non resta che riconoscerne la forza e accettare il volere divino. Le preghiere al vulcano hanno fatto cilecca, forse per la poca fede di Maria, forse per il volere di Pacaya. Tutto sembra perduto per i genitori della ragazza. Non più vergine e gravida, il matrimonio di Maria va a monte. Le serpi inoltre invadono la piantagione tenendo lontani i contadini impauriti. C'è bisogno di una nuova supplica affinché il Vulcano e Dio, impegnati a bisticciare tra loro, si accorgano del dolore dei loro figli, e di tale preghiera si occupa la risoluta fanciulla, memore dei racconti materni incentrati sul potere delle puerpere nell'ammansire i serpenti velenosi.
Nel film di Jayro Bustamante il vulcano Pacaya è una minaccia appena percepita con la quale i maya hanno imparato a convivere e rappresenta un confine naturale invalicabile che divide il passato dal futuro, l'arretratezza dal progresso, il sogno dalla dura realtà. Da una parte gli amerindi cacciati dal paradiso e costretti a sporcarsi le mani e spaccarsi la schiena lungo i crinali fecondi della montagna infuocata, dall'altra la civiltà usurpatrice che ha le fattezze di un ospedale, di un commissariato di polizia e di un paese lontano (gli Stati Uniti) che il giovane Pepe intende raggiungere attraversando deserti e fiumi nel territorio messicano ad li là dei monti. Quel mondo lontano sembra, tuttavia, arrivato anche tra la povera comunità di coltivatori di El Patrocinio, quanto meno sono arrivati, di quell'incivile popolo ispanico gli aspetti più beceri: il vizio, il desiderio di andarsene in cerca di miglior fortuna, lo sfruttamento che si riflette nelle case fatiscenti della manovalanza, nella mancanza di un domicilio certo di stagione in stagione, nella subalterna posizione rispetto ai proprietari delle piantagioni. Un pick up rosso è il miraggio della ricchezza, ed un locale di poche pretese, dove ingollare litri di rum e spendere la paga guadagnata nel sudore, aiuta a dimenticare la miseria e sognare le casa americane con giardinetto privato. Jayro Bustamante, che ha esordito nel 2015 con questo film di rara bellezza, valsogli immediatamente un posto nella line up della Berlinale numero 65, ha raccontato un'ordinaria storia di povertà e di sfruttamento ai danni del popolo maya nel suo Guatemala. Cresciuto nelle terre dei nativi, Bustamante, figlio di due medici, è stato spinto ad occuparsi dei diritti dei popoli autoctoni grazie all'esempio della madre che nel suo lavoro di medico di famiglia si occupava di molti pazienti cakchiquel spesso ricevendo come pagamento i frutti della terra. Il piccolo Jayro è cresciuto fin dall'infanzia nelle piantegioni degli avi, nei luoghi della cultura, della lingua e delle credenze amerinde. Ha imparato il francese e l'italiano a scuola e la lingua cakchiquel dalla tata. Una volta adulto ha voluto raccontare questa gente con un cinema asciutto ma non privo di poesia usando la lingua dei raccoglitori di caffè. Attraverso la dolce e forte Maria ha raccontato l'arretratezza sociale e, nel rispetto della cultura del popolo, ha evidenziato quella cronica carenza di istruzione che ha contribuito a indirizzare il corso degli eventi verso un drammatico e truffaldino finale di cui la giovane madre è stata la vittima inconsapevole.
La valle del Pacaya è, certamente, un luogo impervio, nonostante ciò protegge gli abitanti abbandonati da uno stato che non si assume il compito di istruire le popolazioni più a rischio, incapaci, una volta catapultate nel caos metropolitano, di parlare lo spagnolo e di sopravvivere al cinismo di un mondo perfido e menzognero. Pur ispirato ad una storia vera, e seppur attento nel rappresentare la vita dei contadini secondo i canoni di uno studio antropologico il film di Bustamante non indulge nel genere documentaristico. Basterebbe, per fugare ogni dubbio, sottolineare la bellezza della fotografia che, in esterno vira nei verdi freddi della vegetazione, nei grigi della terra vulcanica e nei neri della notte profonda rendendo il paesaggio arcigno e affrancato da ogni schiavitù. I baluginii del fuoco dentro la casa, i corpi nudi delle donne nel pudico chiarore di una fiammella e gli ornamenti da sposa sgargianti di rosso e giallo testimoniano, invece, il calore degli affetti famigliari, unico appiglio per sopravvivere ad una terra estrema e ad un divario economico e culturale accresciuto da vili approfittatori che si arricchiscono sull'ignoranza della gente, e sulla debolezza delle donne in particolare.
Pur mantenendosi su registri di cinema "civile" che, malinconicamente, rappresenta la realtà senza sfogo e senza alternative dei Maya, "Vulcano" non eccede mai nei toni della protesta politica, semmai descrive la circolarità di un'esistenza immutevole nel tempo che, metaforicamente, si apre e si chiude nel primo piano della ragazza vestita a festa. Sarà il suo terzo e splendido film "La llorona" passato incredibilmente nella sezione "Giornate degli autori" a Venezia 76, anziché in concorso, a spingere sulla necessità di una presa di coscienza politica del problema delle minoranze guatemalteche. Lì il cinema si fa' arte al servizio della giustizia con una denuncia diretta al potere che non solo non si è preso cura delle minoranze, o meglio degli unici a vantare diritti sulle terre occupate dai colonizzatori, ma ne ha perpretato la strage con operazioni programmatiche di epurazione etnica. Dopo Rigoberta Menchú il Guatemala ha nel cinema di Jayro Bustamante una nuova autorevole voce che ne racconta le umane tragedie e la smisurata bellezza.
(V.o.s.)
DVD - Ed. Luckyred Homevideo
"L'uomo va rispettato e difeso, non certo trattato come una specie protetta"
(Rigoberta Menchú)
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