Regia di Ferdinando Cito Filomarino vedi scheda film
C’è una scena di Antonia. in cui la protagonista, diventata insegnante. racconta alle sue alunne il momento topico di Tonio Kroger di Thomas Mann, in cui l’eroe guarda il vecchio amore e il vecchio amico che ballano noncuranti di lui. Come Tonio, Antonia non arriva alla vita ma va oltre la vita e dopotutto anche Montale ebbe a dire che le qualità della sua poesia meritavano una considerazione assoluta al di là del tempo e della storia. L’eroina titolare, si sa, è la poetessa Antonia Pozzi, voce tra le più autentiche del panorama novecentesco, figlia dell’alta borghesia milanese, «sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale» al punto da scegliere la morte per infelicità.
Con un approccio del tutto antiretorico, il debuttante nel lungometraggio Ferdinando Cito Filomarino mette in scena la vita della Pozzi come se fosse una raccolta di frammenti, un diario intimo che si serve della cronologia storica per raccontare le tappe di un percorso esistenziale tormentato, segnato da almeno tre amori sventurati e da una bruciante produzione artistica. Antonia è interpretata dall’inedita e straordinaria Linda Caridi.
A differenza del Giovane favoloso, l’altro importante film sulla poesia della nostra recente cinematografia, il momento della creazione non è affidato al suono delle parole meditate e al contempo inattese del poeta di Recanati: qui la scrittura febbrile in fieri assiste la lettura muta delle pagine stampate post mortem nell’idea di una ricerca che appartiene sia al demiurgo che al fruitore.
Senza cadute nell’agiografia né ammiccamenti al gusto del pubblico più pigro, il film costruisce una complessa ragnatela che deve più di qualcosa al capitale montaggio di Walter Fasano, solito sodale di Luca Guadagnino (qui produttore) e tra i pochi oggi a proporre qualcosa di accostabile all’indimenticabile esperienza di Kim Arcalli. A far da spartiacque, c’è la fortissima scena della masturbazione sulle note della straziante Va’ di Piero Ciampi.
E pur con sporadiche ingenuità da individuare nella direzione degli attori e nel filone della suggestioni omosessuali non del tutto approfondito, Antonia. si emancipa dal cinema nostrano per inserirsi in un contesto sovranazionale, cercando un cinema artistico anche grazie a contributi per niente banali: la fotografia ad olio di Sayombhu Mukdeeprom (sue le immagini di Lo zio Bonnmee e Le mille e una notte), le scene accurate ma non pedanti di Bruno Duarte (già scenografo del portoghese Tabu), i costumi della celebrata Ursula Patzak (il guardaroba di Antonia è curato da Fendi, finanziatore del film come ai tempi di Io sono l’amore). Un esordio notevole.
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