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Regia di Alberto Sordi vedi scheda film

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La recensione su Tutti dentro

di lamettrie
8 stelle

Un bel film, con aspetti notevoli mischiati però ad altri meno brillanti. Un mix che meriterebbe 7, ma mi sembra più giusto l’8 per premiare il coraggio che il Sordi regista ha sovente mostrato. Se è stato massacrato dalla critica quando era dietro alla macchina da presa, ciò è dipeso da questo fatto, anche: che ha criticato le malefatte del potere con una serietà e una veridicità spesso sconosciuta a quei tempi. Qui si era nel ’84, quei primi anni ’80 che hanno rappresentato una delle ere più vigorose della stupidità acritica (infatti Reagan viene citato anche qui come un salvatore, sebbene in un sottofondo ironico).

Il grande merito del film è chiamare per nome la corruzione del potere. Una corruzione di tipo economico, che attira su di sé tutte le altre corruzioni. Non è stata la politica corrompere il mondo dell’economia; è stato l’elite economica a detenere tutto il potere (in Italia da quasi due secoli), e corrompere di conseguenza la politica, il giornalismo … tutta la società civile insomma. Nulla di nuovo sulla storia, tragica, del capitalismo. Ma bisogna avere l’indipendenza di raccontarla. Uno come Sordi l’ha avuta (ricordo anche, di simile, lo spettacoloso “Finché c’è guerra c’è speranza”), ed è stato umiliato ingiustamente. Altri leccapiedi hanno fatto carriera, invece, proprio dicendo le balle che i loro padroni imponevano loro: l’alternativa era la disoccupazione. Tutti quei padroni erano ricchi; spesso erano disonesti. Esattamente come la galleria dei personaggi snocciolata nel film. Memorabile la sequenza degli arresti, tra il matrimonio e i religiosi. Un altro merito della, ingiustamente dimenticata, pellicola, è non fare sconti a nessuno: anche il potere religioso fa la sua storicamente corretta, magra figura, allorquando ha dato “asilo” ai criminali, nonostante le tipiche coperture false.

Ai tempi, ben 35 anni fa, c’era molto meno la percezione che il capitalismo fosse il peggiore dei mali contemporanei (e lo è ancora): con la sua finanza amorale, che da prima, allora e sino ad oggi continua a imperversare, impoverendo le moltitudini per i profitti illeciti, e favolosi, di pochi.

Il film ha anche altri meriti. Tra questi, quello di non offrire letture facili, quelle manichee dove i buoni sono solo dalla propria parte: c’è l’autocritica di chi difende l’onestà. L’onesta va difesa sempre, come il magistrato vuol fare, ma con le dovute accortezze: innanzitutto quella di non presupporre mai di essere infallibili, o sempre a priori dalla parte del giusto. Il magistrato giustamente viene indagato, perché con disinvoltura ha violato la prassi, pur in buona fede. Poi c’è l’attenzione verso gli innocenti, che vanno salvaguardati. Il film non è affatto un pasticcio meticciato di giustizialismo e garantismo; al contrario, mostra le ragioni corrette di entrambi, Ma fa anche vedere questo: che nella realtà i danni dell’impunità sono molto più ingenti di quelli dell’eccesso di rigore (pur dovendosi evitare entrambi). Ciò è avvalorato anche da questo: il sistema di potere capitalistico ha sempre fatto in modo da garantire l’impunità ai ricchi criminali. Quindi una persona che cerca di essere onesta, e ostacolare il disonesto, ha molti problemi al suo primo errore; al contrario il ricco disonesto, vedendosi posti molti meno problemi, può continuare con disinvoltura a rubare, perché ciò lo arricchisce enormemente di più rispetto alla prassi onesta, e soprattutto perché il gioco delle parti è stato costruito con tale cura scientifica da premiarlo quasi sempre. Si può andare sul sicuro, delinquere conviene: rende molto tristi, ma anche molto ricchi e potenti. Una lezione ottima (si fa per dire), che Sordi ci lascia, e che purtroppo è ben lungi dall’essere scalfita in Italia (almeno dai partiti tradizionali). L’asservimento di tutti i giornalisti che vogliono far carriera, e quindi devono diffondere menzogne consapevolmente, è una conseguenza di quanto sopra.

Tra gli altri pregi:  la musica di Piccioni; la fotografia su Roma; l’interpretazione di Sordi, sempre grandioso, tra la camminata del rigido e i risolini compiaciuti; la sceneggiatura di Sonego e dello stesso Sordi, brillante, ariosa, molto anni ’80 (ovvero un po’ televisiva e scintillante), mai noiosa, che arriva al sodo.

I difetti: la storia si sfilaccia nel secondo tempo un po’, quando si va sul personale, e sull’etnico in Marocco; la Di Lazzaro allora era una stellina, e lo dimostra con la sua bellezza, meno con la recitazione.

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