Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Quattro personaggi senza storia, girano a vuoto intorno alla piscina. Qualcuno si tuffa e qualcun'altro cade dentro ma in ogni caso l'acqua è fredda, freddissima.
Chissà se il soccorso emotivo di cui parla il pezzo degli Stones citato nel film, vuole fungere da spartiacque narrativo di una tragedia che si muove su di un doppio filo ma che denuncia l’assenza di partecipazione dei suoi protagonisti, ricchi, annoiati, e alternativi. La cura degli spazi vuole evidentemente occupare il racconto non tanto focalizzandosi sui quattro protagonisti ma sul conflitto ambientale che dovrebbe mettere a nudo le contraddizioni e le pulsioni nascoste. Luca Guadagnino conferma molto bene le sue capacità tecniche e di lettura dell'immagine con quei movimenti spiazzanti quanto studiati e costruiti , e forse è proprio l'attenzione degli aspetti formali a prendere spazio rispetto ad un contenuto che si manifesterebbe più efficacemente con i silenzi e le atmosfere rispetto ad una cornice cosi ricca di suoni, colori, dettagli. In comune con l'originale di Deray, La piscina (1969), A bigger splash ha un notevole cast, e come il più libero dei remake permette al regista di attingere e di manipolare la traccia originale per farne nelle intenzioni forse qualcos'altro. Una famosa rockstar Marianne Lane si sta godendo una breve vacanza nell'isola di Pantelleria in attesa che le sue corde vocali si rimettano in funzione, in compagnia del giovane amante, il problematico fotografo Paul. Saranno raggiunti da una vecchia fiamma di Marianne, il produttore discografico Harry insieme alla perturbante figlia Penelope. La prima parte del film si rivela ricca di promesse, citazioni pop, artifici scenografici in cui s'incastrano ad un ritmo serrato volti, inquadrature, musica (e da questo punto di vista ne risulterà un ottimo lavoro) dove tutto si raccorda intorno e dentro la piscina di casa, in grado di unire paesaggio esterno con quello interiore.
Premesso che Tilda Swinton nei panni di Marianne è un punto fermo del cinema di Guadagnino (e per lei, già musa di Derek Jarman, il passo che la distanzia da ciò che rappresentava il poliedrico artista inglese è un segno dei tempi tutto da interpretare) è soprattutto nella figura di Penelope che il confronto tra l'originale che era Jane Birkin e qui Dakota Johnson, diventa devastante. Mentre la Penelope Birkin era il polo d'attrazione e di disputa intorno alla piscina della villa che ospitava i personaggi, cospargendo intorno alla sua figura un insieme di insofferenza, critica e perversione, la Johnson invece appare troppo lontana dall'essere un richiamo del desiderio e le legittime divagazioni ambientali della sceneggiatura, che offrono diversi spaccati esterni alla condizione claustrofobico emotiva del presunto gioco al massacro, non aiutano il film ad essere identificato come un vero e proprio corpo della diversità in cui convivono e latitano sentimenti oscuri ed irrazionali. Paul interpretato da Matthias Schoenaerts risulta enigmatico e marginale quanto basta, nulla a che vedere con l’ambiguità di Delon di La piscina, sia chiaro. La brava Swinton che nonostante non risulti troppo verosimile come leggendaria rockstar, riempirebbe da sola la scena pur non sfruttando l'ottimo espediente della momentanea scomparsa della voce, in grado com'è di esprimere nel fisico e negli sguardi espressioni significative ed incisive su di un personaggio femminile alquanto in crisi. A lei viene affiancato un altro mostro di bravura, Ralph Fiennes nel ruolo di Harry, regalandoci un interpretazione tutta sopra le righe che non può che conquistare. Proprio grazie a Finnies che balla sulle note di Emotional rescue (scena che da sola vale tutto il film) si raggiunge il vertice emotivo dal quale si dovrebbe inesorabilmente declinare verso un filtro che verifichi, smonti o metta in discussione tale posizione. Per farlo, il regista come detto si avvale di una ricercatezza ambientale molto, troppo“cool” che magari ben si addice a chi vuole distanziarsi dal provincialismo delle storie che inflazionano il nostro cinema. Se solo però si rinunciasse a proporre l’ambiente cartolinesco e da club vacanze, l’ isola da soggetto paradisiaco in cui rifugiarsi diventerebbe spazio dello sconforto e dello sconfinamento dell’anima, lo stesso scenario di bellezza naturale si rivelerebbe un mondo stridente e ostile dal quale difendersi magari proprio in quella piscina, simbolo di un’esclusività protettiva. Invece Guadagnino sembra sconfessarsi, i dialoghi diventano più scontati, il paesino di mare accogliente, c’è il calore della gente, la buona e sana cucina tradizionale, il ballo in piazza, il tocco finto trasgressivo, l’immancabile karaoke.
Quello che poteva diventare una straniante linea antinarrativa, si pensi alle divagazioni di Antonioni in L’avventura per esempio, lascia il campo ad un racconto convenzionale che sa di occasione mancata, e neppure l’espediente della presenza dei profughi presenti sull’isola non incide sull’anima del racconto. La tensione e la solitudine personale dei protagonisti non emerge, lasciando cadere nel non detto o nel fuori campo le congetture degli spettatori avviate verso una mediazione sulla forma, elegante ma fine a se stessa, un po come l’abbigliamento di Marianne Lane, simbolo della rockstar verso il viale del tramonto che di essere umano dai sentimenti contrastanti. Più cinema dell’indifferenza patinata che della contemporaneità spietata con la quale a volte servirebbe sporcarsi le mani.
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