Regia di Kyle Patrick Alvarez vedi scheda film
L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa. Lo psicologo statunitense Philip Zimbardo l’ha dimostrato. Non solo a parole, non solo nel suo libro. La prova, inconfutabile e sconvolgente, è venuta da un suo esperimento, realizzato nel 1971, di cui nemmeno lui avrebbe immaginato l’esito. Alcuni studenti dell’università di Stanford rispondono all’annuncio pubblicato su un giornale, offrendosi come cavie, durante le vacanze estive, dietro un compenso di 15 dollari al giorno. Ne saranno selezionati 24, ai quali un sorteggio assegnerà i ruoli di detenuto o guardia, in una finta prigione realizzata in un corridoio situato nei sotterranei di un edifico del campus. I partecipanti alla simulazione sanno bene che non si tratta della realtà, e si fanno prendere dallo spirito del gioco, che, però, nel giro di poche ore, comincia a diventare terribilmente serio. Qualcosa di atavico, nascosto nei recessi della loro natura di uomini, si risveglia, e, senza che se ne rendano conto, si impossessa violentemente di loro. Il film di Kyle Patrick Alvarez – basato sullo stesso soggetto dei precedenti The Experiment del 2001 e del 2010 – ricostruisce la vicenda dalla prospettiva dei ragazzi e dell’équipe del professore, con uno sguardo ravvicinato che fa subito perdere la visione di insieme, il collegamento con il contesto. Il controllo sulla situazione viene meno anche per lo spettatore, che si trova a sua volta rapito dentro quella realtà a sé stante, in cui l’isolamento sospende le leggi della morale, così come i criteri della ragione. Tutto si riduce alle regole del protocollo, all’interno delle quali i carcerieri di sentono liberi di spaziare con la fantasia, per tradurle in sofisticate perversioni autoritarie da infliggere ai prigionieri. Questi ultimi rispondono con altrettanta creatività, convogliando la rabbia in una ribellione che mescola determinazione, disperazione e fughe nella follia. Il racconto ne rivela, con scrupolo, tutti i più fini risvolti emotivi, concentrandosi sulla trasformazione dei protagonisti in elementi di un ingranaggio che li trascina e li tritura, ma senza ridurli mai a meccanismi passivi: ognuno, benché privato formalmente della propria identità – i nomi sono sostituiti da numeri o da qualifiche – rimane interamente presente con la propria capacità di sentire, di soffrire, di godere, sia pur in maniera prevalentemente autoreferenziale, da individuo che combatte per la salvezza o l’affermazione di se stesso. I rapporti interpersonali sono quelli tipici di una lotta, in cui si instaurano spontaneamente gerarchie, mentre si spezza la solidarietà tra pari. In assenza di un quadro normativo che garantisca i diritti di ognuno, i comportamenti si modellano sull’esigenza di gestire e difendere il proprio io, con ogni mezzo a disposizione, in una rapida escalation che farà saltare anche i pochi, essenziali vincoli imposti dal contratto (tra cui il divieto di qualsiasi tipo di aggressione fisica). Essere chiusi dentro, in un mondo a parte, equivale a trovarsi fuori dalla società, separati dalle sue consuetudini, dai suoi riti, dai suoi codici, che prescrivono, anche tramite l’inquadramento culturale della civiltà, il modo cin cui ognuno deve considerare l’altro e relazionarsi con esso. Non importa se questa separazione sia ufficiale o solo convenzionale, quel che conta è che sia concreta ed assoluta: basta smettere di appartenere – anche solo temporaneamente – all’usuale vita di cittadini, di figli, di compagni ed amici per vedere emergere in noi la parte più brutale della nostra innata capacità di adattamento. Questo film affonda, cinematograficamente, il coltello nella piaga, proponendoci la disumanità per forza come un processo che, sia pur innescato artificiosamente, conosce un decorso del tutto naturale: una involuzione che velocemente scivola, senza freni, lungo le vie dell’istinto, assumendo caratteri bestiali, eppure perfettamente aderenti alle complesse fattezze umane.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta