Alverson lo si odia o lo si ama, non si tratta di un regista che ammette mezze misure. Ed Entertainment, suo per regia e scrittura, è senza alcun dubbio un film sorprendente.
Qui il protagonista (Gregg Turkington) è un comico dalla postura da depresso, che fa più ridere per il suo vestirsi a pantaloni laschi, gli occhialoni da cui non si separa neppure quando rotti, il rituale del gel nei capelli a riporto, la voce ingolfata dai bicchieri di alcol che si porta in scena, quel ripetere ossessivamente le sue domande, che per il contenuto delle sue penose e volgari freddure (ma viene da chiedersi se siano peggio queste ultime o le banalità del clown che sistematicamente lo precede in molti degli spettacoli itineranti). E il suo rapporto col pubblico pare quasi di disprezzo, con una paranoia per lo stesso che si manifesta spesso in odio viscerale, al punto che stai là a domandarti come sia possibile che qualcuno ingaggi un personaggio simile. Il suo dramma probabilmente è da ricercare nelle telefonate a una figlia morta o da cui si è diviso ed il suo osservare tutto ciò che accade fuori dal palco con un insolito mutismo è una peculiare scelta registica, secondo cui l’unica risposta possibile di fronte a certi comportamenti umani (difficile stabilirne il confine tra reale e surreale) è stare zitti.
All’uso virtuoso del campo-controcampo si associa il gusto per le riprese degli ampi spazi, che nelle terre desertiche californiane hanno l’effetto di accrescere il senso di totale solitudine del comico (Armellini la chiama “la focale della malinconia”), isolato perfino quando fa visite guidate o diventa spettatore in un seminario di cromoterapia. Un personaggio incredibilmente reale, ché ricorda alla perfezione certi mendicanti che elemosinano qualche spicciolo in cambio di uno spettacolino o qualche oggetto in vendita: si comprende come si tratti di individui che vivono male la propria condizione stentata, alcuni capaci, se lo stupido di turno inizia a prenderli in giro, di tirar fuori una violenza che non ti aspetteresti. La volgarità con cui il protagonista aggredisce una astante che disturba un suo spettacolo è un fiume in piena che lascia in questo senso a dir poco interdetti.
Un’apoteosi il finale a peti simulati che al meglio rappresenta la caduta libera verso l’instabilità mentale del comico. Il pregio del film è anche quello di riuscire a far sorridere mentre dipinge un vero e proprio dramma umano e in questo c'è veramente tanto Chaplin.
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