Regia di Monica Castiglioni vedi scheda film
Qualcuno l’ha definito un documentario. Altri hanno preferito ascriverlo al genere drammatico. Ma che cos’è in fondo, un diario, se non un documento drammatizzato: una testimonianza personale, che per sua natura, è una storia raccontata e commentata “da dentro”. La macchina da presa è piazzata proprio lì in mezzo, tra Miriam e le persone che più le sono vicine: Agnese, la coinquilina ed amica, i possibili fidanzati, il (mancato) futuro marito. Colpisce, nella regia di Monica Castiglioni, l’insistenza sugli occhi chiari, sugli sguardi attoniti, sui tratti del volto che esprimono, insieme, interesse e distanza, sorpresa e compassione. La sensibilità tipicamente femminile è un misto di curiosità e paura, di ricerca dell’altro che si preoccupa, ad ogni passo, di non avvicinarsi troppo, di non violare quell’invisibile confine che delimita l’altrui intimità. Parlare di Miriam è doveroso e difficile: è un gesto di partecipazione, un attestato di simpatia, ma anche una sfida contro il pudore che giustamente circonda la sfera delle emozioni più segrete, le cui radici si perdono in sotterranee, inconfessabili insicurezze. Sarà per questo che lei, la protagonista, è spesso lontana dalla scena, presente solo nei discorsi della gente, nelle chiacchiere impertinenti, pronunciate alle sue spalle, come anche nelle parole più affettuose, sussurrate con devozione. Miriam c’è, ma è perennemente tentata di sparire. Ad un tratto appare in primo piano, e subito dopo si nasconde: forse vorrebbe fuggire, tanto che l’obiettivo riesce appena a trattenerla, catturando al volo l’immagine dei suoi piedi. Quella ragazza, partita tanto tempo fa alla ricerca del vero amore, è incline a schermirsi dietro i suoi ricordi di bambina: quelli che oggi le sembrano perfetti e saggiamente premonitori di uno splendido futuro, incontro al quale continua, imperterrita, a correre. L’uomo, per lei, rimane un (in)desiderabile mistero, nel quale vorrebbe poter specchiare il lato migliore di se stessa, al fine di trovare le necessarie conferme: non voleva che il suo Bo, l’artista ambiguo ed enigmatico, davvero la sposasse, ma solo che arrivasse a chiederle di sposarla. Una vittoria morale che, tuttavia, non è sufficiente a placare la sua inquietudine, il suo senso di vuoto interiore provocato dalla sua grande sete di bellezza, di armonia, di pace con il mondo. Questo film procede con l’acerba freschezza di una mano malferma, fremente per l’ansia di cogliere, tra le amare sfumature della realtà, la tenue scia di un’infantile speranza. La fiaba non decolla, però non smette mai di tentare di indossare le ali, per raggiungere l’orizzonte dei propri sogni. L’idea della felicità è un tormento; e rappresenta, per l’anima, quelli che un’antica credenza popolare chiamava i dolori della crescita. Si può fare cinema intorno a questo faticoso tentennamento del cuore: è un’operazione semplice e coraggiosa, che, in questo caso, non si lascia frenare dal timore di sembrare inadeguata, mentre aderisce, con adolescenziale slancio, all’adorabile sincerità di un essere bisognoso di conforto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta