Regia di Vittorio De Seta vedi scheda film
Nel paese arroccato nella montagna cosentina conosciuto come Alessandria del Carretto, Vittorio De Seta ripercorre le fatiche che gli ostinati abitanti di quella roccaforte di pietra isolata dal mondo devono sostenere per rifornirsi di tutti gli approvvigionamenti che costoro non riescono a produrre in loco.
La strada progettata per collegare il paese con il resto del mondo, è stata abbandonata nella sua ultimazione a causa delle difficoltà pratiche incontrate durante le fasi di messa a punto dello spianamento, ed i camion carichi di merce sono costretti ad arrestarsi a circa una ventina di chilometri prima del paese, costringendo gli abitanti a caricare il materiale sul dorso di poveri asini dimessi e volenterosi, costretti assieme ai loro padroni ad un arduo percorso accidentato sino alla rocca che accoglie il paese di povere case tutto in pietra locale.
Esposto a piogge torrenziali che generano fiumi in piena, alla neve che impedisce la coltura dei campi per tutto l'inverno, il paese costringe i risoluti abitanti che non si convincono ad emigrare verso valle, ad andare avanti con una vita di pura sussistenza, aspettando l'arrivo della primavera e della stagione pià propizia alle colture.
In quella occasione si celebra l'unica vera festa paesana, conosciuta come "Festa dell'abete", che coinvolge tutto il paese in preparativi complessi, a cominciare dalla ricerca dell'abete da sacrificare per la costruzione del pilone ove i giovani si sfideranno per arrivare a toccarne l'ambita cima, dopo un percorso in ascesa ostacolato dalla scivolosità del legno levigato dai mastri d'ascia e saponificato per rendere più ardua l'impresa e piccante la sfida.
Le donne preparano il pranzo e le specialità messe in vendita per finanziare i proventi di una festa che costituisce l'unico momento di allegria e condivisione di bei momenti, legati anche ad un periodo che climaticamente predispone alla speranza e all'ottimismo. Finita la festa, ogni nucleo familiare tornerà dimesso alle proprie case di pietra, nella consapevolezza che fino al prossimo anno non ci sarà più alcun motivo valido per festeggiare alcunché.
I dimenticati è un'altra occasione che permette al grande De Seta di entrare nel vivo di una tradizione di vita, riuscendone a tradurre immagini che ne esprimano fedelmente i tratti distintivi, senza fuorvianti edulcorazioni o inutili strascichi melodrammatici.
La vicenda, cruda, drammatica e puntuale, ricorda a tratti il bel documentario di Bunuel, Las Hurdes (Terra senza pane, del 1932), pure lui incentrato a filmare e raccontare le difficili condizioni di vita e di salute degli abitanti di alcuni paesini dell'entroterra spagnolo al confine col Portogallo.
La vicenda di De Seta risulta ancor più corale, e ci introduce in un mondo altrimenti perduto che la sua cinepresa riprende nella più genuina purezza di ciò che realmente appare agli occhi dello straniero giunto a documentare quel mondo senza futuro, ma tenace nel rimanere risolutamente legato alle proprie tradizioni millenarie.
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