Regia di Stefano Sollima vedi scheda film
Quando sesso e violenza non sono fini a se stessi ma rappresentano la triste realtà di una società che ha toccato il fondo. Chi la salverà, riportandola ai valori della vita? Ovvero: chi la farà definitivamente scomparire insieme a tutto il pianeta? Forse la pioggia.
La trama di questo film, che sembra tratta dalla cronaca di questi giorni, è invece straordinariamente ispirata al romanzo di De Cataldo e Carlo Bonini, pubblicato nel 2013 e scritto chi sa quanto tempo prima, che anticipa di molto gli avvenimenti di estrema collusione e connivenza tra potere politico e mafioso, che oggi riconosciamo con il nome di “mafia capitale”. Il romanzo pone al centro di questa ulteriore sferzata di decadimento civile e morale della società, due avvenimenti fondamentali: l’uscita di Berlusconi dalla politica e le dimissioni di Ratzinger poco dopo la sua elezione a Papa. Non meno rilevanti appaiono, inoltre, alcuni riferimenti a fatti che ci riconducono con la mente alle orge di Marrazzo nonché a quella disgustosa e plateale manifestazione dei funerali della banda di zingari dei Colamonica.
Che Sollima facesse un film sulla mafia non ci sorprende. Ci sorprende invece che esso si sia ben distaccato dagli sceneggiati RAI stile “La squadra” o altri serial con banditi, polizia e benpensanti, che pure portano la firma del nostro Stefano. Scoprire in Sollima tante nuove qualità è una grande bella sorpresa che non si spiega nemmeno con la circostanza di essere figlio d’arte; di quel Gianni Sollima ricordato per aver militato nella squadra degli “spaghetti western” di Sergio Leone, per poi passare alla realizzazione del personaggio Cuchillo (interprete Tomas Milian) e, infine, ripiegare anch’egli negli sceneggiati televisivi con la serie “Sandokan” a cui è legata la massima sua notorietà. Eppure in Suburra gli ingredienti ci sono tutti. Persino gli attori sono presi in prestito da mamma Rai; anche quelli che, fatta la loro strada in TV, sono approdati a pieno titolo al set cinematografico. Ma questo film è tutt’altra cosa, segno che la differenza la fanno altri ingredienti. Prima di tutto la regia e, poi, la sceneggiatura. Ma, procediamo con ordine.
La storia prende le mosse da una delle più diffuse caratteristiche dei politici corrotti: essere preda dei vizi più scellerati. Denaro, sesso e droga li spingono verso la parte più pericolosa della società. Prostitute, spacciatori e malavitosi di ogni genere entrano a pieno titolo in ogni loro affare e pretendono la loro parte. Il ricatto a cui si espongono da parte di questi, fa vacillare la loro apparente reputazione. E al ricatto, si sa, o si soccombe o si reagisce chiedendo aiuto ad altri malavitosi. E, così, si allarga il giro del malaffare fino a quando il gioco non è più nelle mani del politico ma passa in quelle dei mafiosi ed al costo della propria vita. Fin qui la morale della storia. Nulla di nuovo e niente in più delle inchieste di questi giorni o degli ultimi vent’anni.. Oggi, però, la tipologia dei personaggi si è fortemente diversificata. Da quando Berlusconi si è fatto da parte lasciando in campo un manipolo di cani sciolti; oppure, da quando la nomenclatura ecclesiastica è apparsa non da meno di quella dei parlamentari, spingendo Ratzinger a dichiarare la propria inadeguatezza all’immoralità dilagante nella chiesa e dimettersi da Papa; da allora, dicevo, i personaggi alla ribalta vestono panni da gregari. Personaggi privi di morale, niente dignità, niente amore per il prossimo e, principalmente, nessuna reputazione da salvare.
Allora, dov’è la grandezza del film? Si diceva, nella regia. Si, nella regia; nella forza espressiva delle immagini, nella rappresentazione degli eventi; nella crudezza di ogni cosa, più della stessa realtà. Perché a rappresentare lo schifo della politica non basta più il racconto del cronista. Nessuno più si scandalizza a sentir parlare dei festini di Arcore, delle orge e degli ammazzamenti della mafia. Però, pochi sono quelli che vi hanno partecipato; gli altri, cioè i più, non possono capire dove può portare tanta dissipatezza e malvagità. Occorre calcare la mano e Sollima lo fa con maestria, imponendo agli attori di imprimere la massima partecipazione personale alla sfrenata lussuria dei personaggi o al loro disprezzo per la vita umana. Sia pure travalicando i limiti del comune pudore nelle scene di sesso -e quelli del raccapriccio nelle scene di sangue- nulla appare più di quanto strettamente necessario all’intento. Sollima ha capito che la cronaca non è da sola idonea a trasmettere quel disgusto e, ricordandosi di non essere la Gabanelli, usa al meglio la magia del cinema per inchiodare lo spettatore alla visione di un racconto fluido e pieno di emozioni.
Parlando, infine, della scenografia, viene in mente una strana coincidenza del cinema più recente. Nell’ultimo film della Golino (Per amor vostro), ambientato a Napoli, così come in Suburra (ambientato a Roma), entra in campo la pioggia. Non quella di “singing in the rain” o quella calda dei monsoni. E’ una pioggia fredda, abbondante, senza fine, simbolo biblico di una fine annunciata. O l’inizio di una rinascita? E’ la pioggia incessante delle mutazioni climatiche che distrugge e spazza via l’intero pianeta e si impone quale nuovo soggetto della nostra quotidianità? O la pioggia che lava e purifica per riportare alla luce i veri valori della vita? L’una e l’altra interpretazione è valida. Resta però il fascino dell’immagine, di quella luce viva e profonda che si rispecchia nelle vie, nei monumenti bagnati, negli edifici ed in ogni cosa. La strana sensazione di un rumore di fondo (lo scroscio della pioggia, appunto) che opacizza il volgare chiacchiericcio della strada ed isola la scena da ogni altra contaminazione sonora estranea alla drammaticità degli eventi. Lo spettatore resta prigioniero di questa atmosfera.
Gli attori sono bravi. Su di loro vigila la mano attenta ed esigente del regista. Farina (Filippo Malgradi), personaggio chiave del mondo politico, interpreta con grande convincimento il suo ruolo. Sveglio nel tessere gli inciuci di palazzo e rincoglionito da sesso e droga per poi scimmiottare una poco attenta vita familiare, è il tipico uomo da mafia capitale. Sebastiano (Elio Germani), personaggio introdotto in quell’ambiente corrotto, ma illuso da una protezione non più efficace, deve fare ben presto i conti con i veri nuovi padroni (mafiosi e criminali veri) e finisce come il classico vaso di terracotta tra vasi di ferro. La sua rivincita finale è solo casuale, ma desta lo spettatore e rinvigorisce il senso di vendetta che è in ognuno di noi per la perdita dei valori della nostra società. Manfredi, Numero 8 e Viola sono grandi interpreti di quel mondo di cani rabbiosi formatisi alla scuola della malvagità e dell’ignoranza. Attaccati alla vita dalla passione per le più basse sensazioni organiche e agli uomini limitatamente a rapporti di possesso verso i propri partner e familiari, soccombono anch’essi, alla fine, scannandosi tra di loro. Resta alquanto deludente Samurai che, quale capo storico ed autorevole della mafia, superstite della banda della magliana, proprio non meritava un Claudio Amendola made in mamma Rai.
Che dire? Tutto cambia affinché nulla possa cambiare. Non una rivincita della società. Solo un cambiamento di scena pronto a sostituire nuovi personaggi nel panorama politico e sociale dei nostri tempi. D’altronde non è un film di fantasia. E’ pura e cruda realtà.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta