Regia di Stefano Sollima vedi scheda film
“Suburra” è un poderoso affresco sul malaffare dalla struggente intensità. È un pugno nello stomaco, una disturbante rivelazione, ma anche una scomoda conferma di quanto quotidianamente ci riportano gli organi di stampa. Il regista Stefano Sollima, utilizzando il suo peculiare stile già mostrato sul piccolo schermo, imbastisce una trama fitta, che si intreccia con perfida dovizia a poco a poco, mostrandoci prima i protagonisti e poi facendone incastrare le vicende, fino ad arrivare a quel puzzle che abbiamo imparato a chiamare “mafia capitale”.
Il film, come d’altronde il romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini da cui è tratto, narra della settimana dal 5 al 12 novembre del 2011, in cui, per uno strano caso del destino tutti i poteri di Roma (politico, ecclesiastico, imprenditoriale) giungono ad una svolta. “L’Apocalisse” la chiamano gli autori. Intesa non solo come resa dei conti tra i clan protagonisti, ma soprattutto come periodo storico in cui l’Italia si trova, travolta inevitabilmente dalle beghe della politica, dal predominio della delinquenza, dallo strapotere dell’affarismo.
Assieme alle peculiarità del suo cinema (la musica martellante presente in quasi tutte le scene, le inquadrature soffocanti, i dialoghi fitti – rari ma incisivi e rigorosamente in dialetto) Sollima ci propina stavolta anche una pioggia battente (che non si ferma nemmeno con i titoli di coda) che richiama un altro episodio biblico, quello del diluvio universale. La pioggia in teoria dovrebbe ripulire il mondo, consentendogli di ripartire daccapo. Ed il finale, non propriamente pessimistico, è un messaggio chiaro in questo senso.
Quello del regista romano è un film corale, in cui il ruolo di protagonista se lo contendono a turno un po’ tutti, in quanto tutti ruotano impazziti attorno all’asse del potere. Il potere che si autoalimenta, ma è in grado anche di autodistruggersi. Il potere di muovere interessi, di gestire situazioni che fuori dal giro (del parlamento, della Roma bene, delle famiglie mafiose) nessun altro può controllare. Non può farlo soprattutto la povera gente, quella che appare in un corteo per il quale quasi proviamo pena, rimbecilliti come siamo da oltre 2 ore di meschinità che quasi ci fanno immedesimare col sistema. Quel gruppo di indignati cittadini, mossi da puro livore e legittima indignazione, entrano marginalmente in una scena minore (così come minore è il loro peso sociale, visti i presupposti di Suburra), dato che in quella scena si consuma un dramma ben più grande (per il Suburra-sistema), il rischio di uscire dalla lobby da parte dell’onorevole Malgradi (Pierfrancesco Favino).
Il cast è molto ben assortito (spiccano i nomi di Favino, appunto, ma anche di Elio Germano e Claudio Amendola). Tuttavia le sorprese arrivano da attori meno quotati: Alessandro Borghi, Adamo Dionisi e Giacomo Ferrara (Numero 8, Manfredi e Spadino) sono figure emblematiche attorno a cui si regge il film. I tre attori sono bravi, certo, ma il ruolo li aiuta. Perché nei prodotti di Sollima sono i cattivi ad essere protagonisti. E talvolta il pubblico, anche quello che detesta la criminalità, pare fare il tifo per loro, ammaliato dalla tracotanza, dall’essere sprezzanti, insomma dalla loro apparente invincibilità.
E così, quando calano i titoli di coda, ci si accorge di come tutti siano usciti sconfitti. Anche chi rimane in vita, è un fuscello pronto a sparire al primo soffio di vento, considerata la natura effimera del proprio ruolo e l’ipersensibilità del sistema.
Non c’è dunque un vincitore al termine di Suburra. Se non lo stile di narrazione di Sollima, capace nel miracolo di silenziare per due ore e mezza una sala gremitissima di spettatori, tra cui molti, ahimè, meno ragionevoli e civili di Manfredi e compagnia. Anche loro, come i protagonisti del film, vittime e carnefici allo stesso tempo del sistema nel quale si ritrovano a vivere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta