Ogni nuovo
bambino che
nasce porta il
messaggio
che Dio non è
ancora
scoraggiato
dall'uomo
Rabindranath Tagore
(cit. "Lupo solitario", 1991)
La citazione del poeta e filosofo bengalese, tratta dai titoli di coda di "Lupo solitario" e scelta per introdurre qualche considerazione a proposito dell'ultimo film di Sean Penn, sembra indicare la direzione verso la quale si sarebbero rivolti lo sguardo e gli interessi del regista di Santa Monica. Il quale, per la sua quinta regia, sceglie l'Africa e le sue tragedie per ambientare la storia d'amore di due medici impegnati a salvare vite umane in un continente messo a ferro e fuoco dalle barbarie della guerra. Raccontato dal punto di vista di Wren Petersen (Charlize Theron, qui in un ruolo ad alto tasso di fragilità femminile) la storia si snoda tra il passato e il presente dei protagonisti, mettendo in relazione il complicato legame di Wren e Miguel, con le vicissitudini fisiche e materiali delle vittime - uomini, donne e soprattutto bambini - del genocidio perpetrato ai danni della popolazione africana. Da una parte, quindi, l'attrazione di due opposti che si attirano in virtù di un diverso retaggio socio culturale (Miguel, homo faber, guascone con le donne ed efficiente nella professione, Wren, idealista e facoltosa e per questo spinta a meritarsi sul campo i favori della propria condizione), dall'altra la condizione miserrima dei profughi sofferenti e bisognosi. Non c'è bisogno di aggiungere altro per capire che, nel caso specifico, la sfida del regista consisteva innanzitutto nel tenere a freno una materia drammaturgica che presentava diversi rischi: per esempio quello di una lettura superficiale della questione terzomondista, dovuta al fatto di doverla argomentare all'interno di un contenitore di finzione e intrattenimento, per non dire della difficoltà di tenere insieme le due anime del film, combinando tensione narrativa e impegno civile senza perdere colpi ne in un senso che nell'altro. Se a questo si aggiunge l'identificazione di Penn e della Theron rispetto all'andamento di una storia che sembra mettere in scena lo psicodramma vissuta nella realtà da regista e attrice, arrivati a separarsi poco dopo il termine della produzione (memorabile la freddezza delle parti in causa durante la première del festival di Cannes dello scorso anno dove "Il tuo ultimo sguardo" passo nel concorso ufficiale) il quadro complessivo si complica parecchio.
A conti fatti non si può dire che Penn non sia stato coerente alla propria fama di artista viscerale e poco incline ai compromessi. Parlano, a tal proposito, i primi piani di donne e bambini sofferenti, di corpi mutilati o sul punto di esserlo, specchio di una condivisione realmente sentita (Penn è intervenuto come volontario nelle zone colpite dall'uragano Katrina, e poi nella Haiti distrutta dal terremoto dove il nostro ha pure realizzato una fondazione) ma che il regista mette sullo schermo con un'enfasi più retorica che partecipe, in cui il centro del discorso viene costruito sullo shock visivo e sull'accumulo di sensazioni: si pensi, per esempio, all'effetto "mattatoio" conseguente all'ammasso di corpi senza vita scoperti da Wren all'interno dell'ospedale, e, più in generale, al peso che hanno nell'economia del film la frenesia del montaggio, l'invadenza dell'accompagnamento musicale e la tavolozza di colori "sparati" sullo schermo dalla fotografia iperreale di Barry Ackroyd. E anche quando si tratta di organizzare una possibile risposta all'impotenza delle nazioni, presenti - con il logo UN - ma impotenti, Penn risponde con egual mancanza di misura, spostando a destra e a manca e da un paziente all'altro i due protagonisti, i quali, nel susseguirsi incessante di scenari e di catastrofi perdono la loro connotazione di personaggi per diventare rappresentazione degli stati d'animo che attraversano il film.
Per la seconda volta - dopo "La promessa" - alle prese con una sceneggiatura altrui, non si fatica a credere che Penn si sia trovato a suo agio con il ribellismo a oltranza e le ossessioni del protagonista maschile , il quale, se non fosse per il contesto di cui abbiamo detto, potrebbe essere parente stretto di quelli che lo hanno preceduto nelle opere dirette dall'inquieto regista. Rimane il fatto che, alla stregua della sua ultima uscita d'attore, ("The Gunman" di Pierre Morel) anche la direzione degli attori da parte di Penn risente del clima di generale involuzione, presentandoci un Bardem più gigione che mai, sempre pronto a buttarla "in caciara" con l'immancabile risata e lo sguardo da guascone. Sintesi dello scollamento esistente tra le intenzioni del film e i suoi risultati.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta