Regia di Edoardo Falcone vedi scheda film
Sugli opulenti tetti romani, sulle cui terrazze dalla vista a 360 gradi vive la gente davvero perbene, su piedistalli che si affacciano su ogni monumento romano possibile e famoso, quale che sia l'angolazione e la distanza, ma purché serva a rendere una cornice ammaliante quanto improbabile, la famiglia molto benestante di un arrogante ma stimatissimo ed abile primario chirurgo, si sta preparando ad affrontare un momento delicato ed imbarazzante: il figlio minore della coppia, il maschio, quello brillante e studioso, quello in cui i genitori ripongono speranze di concretezza per la continuazione di una carriera medica che sembra il percorso obbligato - almeno in quella famiglia - deve fare delle rivelazioni scottanti ed importanti che lo riguardano intimamente.
“Sarà gay” - pensa il padre, uomo concreto, acuto e scaltro; un male certo, inconveniente non di poco conto, ma minore se si pensa che anche in quanto tale, la carriera da brillante medico non gli sarà certo preclusa.
Una diversa notizia, questa davvero imprevedibile, travolge inesorabilmente una quiete da anni costruita a tavolino cesellando tasselli che ormai sembravano saldati inestricabilmente: il figlio ha intenzione di prendere i voti, diventando prete.
Circostanza che come ogni sorpresa crea dapprima incredulità, amarezza, delusione, e poi una voragine di insicurezza che crepa e minaccia di far crollare tutto un castello di certezze e percorsi obbligati su cui ogni membro della famiglia, persino la cameriera latinoamericana, si poggiava saldamente.
La premessa ci può stare, e pure il personaggio del chirurgi cinico se non stronzo, reso da Marco Giallini - grande attore, voce magnifica, personaggio esemplare soprattutto quando c'è da rendere una maschera laida e profittatrice - regge bene un inizio divertente e sin concitato.
Peccato che tutto il (poco di) buono finisca li e la commedia, scialba, sfrontata ed imprudente - rovini, ovvero precipiti, già all'apparire del Gassman inutilmente e anacronisticamente mattatore - nel più profondo ed irrecuperabile baratro della inutilità e della melensaggine senza via di cura. Perché già la scialba caratterizzazione statico-atona del figlio, in studente in procinto di farsi prete, tutto sorrisi e rasserenamenti senza motivo, comunica una visione superficiale, distorta e puerile di quella che può essere una reale, legittima scelta di vita.
Perché la commedia (italiana) deve solo cercare di acchiappare il pubblico con risate facili, grossolane, scegliendo di rappresentare, raccontare, descrivere, per scontati luoghi comuni, momenti, situazioni, caratteri e stati d'animo?
Ma un giovane credente convinto non si sente svilito, stereotipato, declassato, a vedersi rappresentato in questo modo così scontato e poco efficacemente rappresentativo?
Il bello (?) tuttavia deve ancora venire, ed il quadro triste e desolante ha il suo apice con l'apparizione della (presunta) mente ispiratrice di tale malcelata conversione: don Pietro, che trova il Alessandro Gassman (non per colpa sua, ma probabilmente di chi gli ha scritto la parte) la sua espressione più grottesca e sfrontata, mentre si prodiga in uno ingiustificabile one-man-show mentre spiega, in perfetto romanesco cadenzato e coatto, un episodio davvero originale e sconosciuto ai più tra le pagine del Vangelo(?): addirittura la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Le vie dell'abisso proseguono infinitamente ed ulteriormente verso il basso, quando la storia cerca di virare verso un progressivo miracoloso miglioramento dei tratti umani ed umanitari in capo al glaciale e rude primario, che, sotto le cure concrete e genuine del parroco, assume atteggiamenti e fattezze che gli fanno acquisire i tratti umani che mai, fino a quel momento, lo caratterizzarono per un secondo.
Ma l'abisso si avvicina ancora di più quando sul finale un tragico evento del destino infittisce la vicenda di un lato melodrammatico che, per fortuna e decenza, ci viene risparmiato nei minimi particolari, non senza rammentarci come l'intervento divino si manifesti con la caduta di una pera da un albero.
Il guaio vero e la malattia inguaribile della commedia nel cinema italiano, è che la stessa venga pensata, scritta e concepita solo come un veicolo, un espediente elementare per fare soldi facili.
Come tale, per rendersi fruibile a più utenti possibili, si sceglie di rendere tutto lineare ed elementare sino alla puerilità e all'imbarazzo, uccidendo ogni tridimensionalità di carattere e ogni sfaccettatura che invece, per fortuna, resistono in altri generi, magari considerati elitari – e dunque perdenti in partenza – ma in grado spesso di farci ancora riconoscere al di fuori dei nostri confini.
E relegando invece, al contrario, la povera e invero dignitosissima commedia, ad un fenomeno strettamente nazionale, poco esportabile, e dunque perdente in partenza, per questo bisognoso di massimizzare gli incassi e di conseguenza obbligato a piacere a tutti e dunque a restare in superficie, evanescente e qualunquista, paladino del luogo comune e della generalizzazione ad oltranza.
P.S.: può essere anche una battuta accettabile criticare cantautori del calibro di De André a favore di Gigi D'Alessio; sostenere che a sette anni il cantautore genovese normalmente può risultare inadatto alle orecchie di una ragazzina (Ilaria Spada da bambina nel film, che ora lo rivendica al padre chirurgo): ma poi farci sorbire addirittura a fine pellicola le litanie devastanti del menestrello napoletano, tacendo invece completamente l'opera unica dell'autore genovese è davvero la conferma, al di là di ogni legittima preferenza personale, della pochezza d'animo che regna sovrana già nelle intenzioni, oltre che nei risultati, del film.
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